Due
portachicchere dal barocco decoro o una (la più celebre?) pala del Bellini?
Inutile
scegliere, è sufficiente entrare: la Pinacoteca di qua, il Museo delle
Ceramiche di là, l’indirizzo è nel centro di Pesaro. In quel cinquecentesco
Palazzo Toschi-Mosca che le accoglie dopo il trasferimento del 1920 da Palazzo
Ducale, e che merita da solo assai più di uno sguardo.
Raccolta
e ordinata nell’abbraccio elegante delle sue quindici sale, l’arte su tela o su
coccio invita infatti ad una preziosa occasione tutt’altro che limitata ai
confini urbani.
A
partire appunto dal Bellini. Veneziano maestro già celebrato dai contemporanei,
la cui matura e originale perizia si
lascia qui ammirare nella cosiddetta Pala Pesaro, commissionata nel 1475 dalla
chiesa di San Francesco di questa città. Rigorosa e nuova, spettacolare e
sobria, questa “Incoronazione di Maria” gioca con la luce e con lo spazio,
rivela prospettive cromatiche prima che geometriche, misura lo spessore di un
artista.
Non
l’unico, certo, nemmeno come veneziano. Accanto a questa sala, dedicata a…se
stesso, ecco infatti quella delle Nature Morte, con opere che vanno dal
pesarese Giannandrea Lazzarini al
napoletano Giuseppe Recco, a Christian Berentz, da Amburgo. Più spettacolare è
però “La caduta dei giganti” di Guido Reni (1575-1642) che, con una quarantina
di tele emiliane e toscane, campeggia in quella
Sala Hercolani- Rossini che raccoglie l’omonima donazione.
Splendide
e importanti anche le opere di iconografia prevalentemente sacra, come La
“Maddalena penitente” e il “San Giuseppe” di Simone Cantarini raccolte nella
Sala che da lui prende nome.
Collezione anche questa legata alle
spoliazioni post-unitarie di molti ordini religiosi, così come a donazioni
nobiliari.
Della
famiglia Ugolini, è ad esempio l’importante lascito di gran parte delle
ceramiche di Sei-Settecento che troviamo qui accanto. E certo, anche se al gran
fuoco di quei secoli (e dei precedenti) cuocevano praticamente in ogni casa
coppe o piatti, vasi o fruttiere, non ci sembra il caso, mai, di parlare di
artigianato.
Raccontata dalle sei sale che vanno dal
Rinascimento al Novecento, sulle tavole c’è una storia dell’arte, anche se è
forse la più fragile. Le maioliche dell’antico ducato di Urbino, quelle
decorate a raffaellesche, gli “effetti speciali” della decorazione a lustro, o
quella tutta a rose pesarese doc, dispiegano una diversa magia del colore, un
più quotidiano bisogno del bello. Sempre
straordinario il tocco di Andrea della Robbia (1435-1525) che firma qui un suo
prezioso esemplare, così come quello di Carlo Antonio Grue (1655-1723), uno dei
più noti maestri della maiolica barocca. Le due portachicchere sono le sue.
Contenitori certo più preziosi di qualsiasi contenuto.
Rita
Guidi
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