mercoledì 4 luglio 2012

COLOMBIA: IL PAESE CHE NON TI ASPETTI - testo e foto di Paolo Pernigotti



Di stupefacente c’è il Paese che non t’aspetti. E la violenza è il sole dei tremila che brucia nel cielo di Bogotà. Scordatevi certi film: la Colombia non è un ghigno, è un sorriso. La guerra della coca è lontana, relegata nelle foreste di confine e nelle ultime pagine dei giornali. Non è più sulla porta di casa. I padrini del narcotraffico erano i padroni del Paese: in Parlamento come al Rotary. Altri tempi. Pablo Escobar e i signori dei Cartelli sono morti ammazzati. Hanno preso il loro posto opachi guardaspalle. O i guardaspalle dei guardaspalle -che è un mestiere che si diventa vecchi di rado -, gente che al mondo non sa stare neanche da viva.  E la Colombia, giorno dopo giorno, è un altro mondo da loro.
Il cuore d’ogni città, d’ogni mucchio di case, è una Plaza Bolivàr. A Bogotà la statua pensosa dell’eroe è circondata dai neoclassici palazzi che contano: il Parlamento, il Municipio, il Tribunale. E la Cattedrale. Ci sono quaranta università nella capitale e trentasei appartengono alla Chiesa: il Paese vive fra manager Opus Dei e Madonne che occhieggiano come pin up dalle serigrafie degli autobus. 
Devozione e superstizione, cattolicesimo e sincretismo: il vento dell’Africa qui soffia ancora. Il più bel panorama della capitale si gode dal santuario di Monserrate, tremila e duecento metri sulla testa dei nove milioni d’abitanti: i fidanzati non ci vanno per scambiarsi eterno amore, ma per lasciarsi. In una teca di vetro c’è un Cristo del 1700 che cade sotto la croce: la statua ha macabri capelli veri. E’ il protettore di chi non sa come dirlo.
Il centro storico ha due anime: la capitale e il villaggio. A Bogotà orientarsi è facile, come a New York: le strade hanno numeri progressivi e se una strada va da nord a sud si chiama Carrera, da est a ovest Calle. 
La parte più interessante della “Candelaria”, il quartiere coloniale a est di Plaza Bolivàr, sta tra Carrera 2 e 5, tra Calle 9 e 12: vi s’incontrano altre chiese dagli altari d’oro e dalle ombre pesanti, altri palazzi dalle facciate solenni, e poi teatri, musei. Se l’ottocentesco Libertador della piazza grande è opera di un artista calabrese, Pietro Tenerani, un altro Pietro, il fiorentino Cantini, ha firmato in Calle 10 il Teatro Colòn, gran fasto di palchi, ori e do di petto. Perché qui Puccini è più celebre della Pausini.
Dai tempi delle caravelle in giù molti italiani hanno portato un segno da queste parti. La strada inversa l’ha fatta Fernando Botero, colombiano superstar, casa e bottega ormai da anni in Versilia, che però non ha dimenticato il suo Paese, né ha voluto che la Colombia si dimenticasse di lui. In Calle 11 una residenza coloniale balconata e fiorita è diventata un museo che porta il suo nome. Grandi forme e grandi firme: centoventi tele e sculture dell’artista e novanta opere che facevano parte della sua collezione privata, da Picasso a Chagall, da Renoir a Matisse, da Monet a Miro, a tutti i più grandi dell’Otto e Novecento. Con le magrezze di Giacometti dirimpetto alle sue rotondità.
I musei sono una quarantina solo nella Candelaria. E ancora biblioteche, ministeri, monasteri. E transenne e soldati ad ogni angolo a proteggere la quiete senza traffico del barrio nobile. Poi, improvvisamente, le strade si stringono, s’inerpicano verso un’inattesa collina, s’acciottolano di pietre così grosse da schiantare ogni auto che si azzardi, e le case si fanno più povere ma anche più allegre, facciate basse dai colori sgargianti, gialli, rossi, blu, davanzali e balconi che sono macchie di fiori.
 E’ Bogotà quand’era un villaggio, è un paesino in mezzo a una metropoli. Fra scalcinati bar dove un piattone di carne, riso e verdura più una buona birra colombiana e un dolce dolcissimo costano diecimila pesos - e ogni volta ci si casca a pensare che è caro, prima di fare i conti e scoprire che sono quattro Euro - fra bancarelle di fiori e negozi di frutta e verdura, che non si sa quali siano più variopinti. La luce dei duemilaottocento metri ravviva i colori come una passata di Photoshop, le prospettive ingannano, le montagne boscose che circondano la città sembrano a un passo, in fondo a ogni strada. E se l’altitudine toglie il fiato nel su e giù delle ripide stradine, lo zucchero grezzo e il succo di limone di un’”agua de panela” sono una buona scusa per una sosta: tanto qui non c’è fretta, il tempo scorre lento, e non scolora.
Garcia Màrquez, Alvaro Mutis, Fernando Vallejo, Santiago Gamboa: la Colombia è terra di scrittori. E ovunque mercatini di libri usati e biblioteche affollate: la Colombia è anche terra di lettori. Qui la parola è importante, basta un angolo di piazza e un microfono perché la gente faccia cerchio e ascolti. Pensieri in libertà, barzellette, poesie: quel che conta è parlare, quel che conta è ascoltare. Hyde Park per eccellenza è Plaza Santander, all’ombra di un museo che è un forziere di cinque piani: racconta i secoli d’oro del Paese, è il Museo dell’oro. Nelle sale buie grandi teche di cristallo a prova di bazooka, acquari di luce dove galleggiano monili, maschere, costumi: trentacinquemila finissimi gioielli dell’epoca preispanica, di quando questa terra ancora non sapeva che avrebbe pagato cara la sua ricchezza. Il pezzo forte è la miniatura di una zattera dell’antico popolo Muisca, un bagliore di carati che ricostruisce una cerimonia sacra sul lago di Guatavita, con le minuziose figurine dei rematori e del Gran sacerdote. Nell’occasione immensi tesori d’oro e smeraldi venivano lasciati cadere nel lago: erano doni per il dio Sole. Gli spagnoli li hanno cercati a lungo, senza successo. Forse il Sole se li è portati via.
A Bogotà i taxi costano poco. Per noi tutto costa poco in Colombia. E la Carrera 7 vale il tassametro: è un film che scorre al finestrino. Attraversa tutta la città, da Nord a Sud, per decine e decine di chilometri, e racconta i volti più diversi della metropoli. Parte dal Palazzo presidenziale, alle spalle di Plaza Bolivàr, scorre accanto ai grattacieli del centro finanziario, ai ristoranti della Zona G (come gourmet), alle strade della vita notturna, la Zona Rosa, ai grandi centri commerciali, ai quartieri residenziali con i condomini in mattoni rossi e le grandi vetrate, fino a costeggiare le favelas della periferia, che qui chiamano tugurios, abbarbicate sulle alture.
Poi la strada porta più a nord, fra prati gibbosi rubati ad antiche lagune e le selvagge rupi di Sutatausa da cui i missionari buttavano gli indios che non si lasciavano convertire, fra cimiteri fioriti come giardini (perché qui i fiori costano meno di tutto) e bandiere rosse che trionfano sulle facciate di qualche casa ma solo per dire che lì si vende carne.
Cinquanta chilometri fuori dalla capitale, alle porte della cittadina di Zipaquirà, un cartello indica la più spettacolare catacomba che si possa immaginare: Ciudad de la Catedral de sal. Nel cuore profondo di una montagna, dove anticamente era una miniera di sale, si nasconde una maestosa, solenne cattedrale, così grande da poter contenere oltre ottomila persone. La sua navata centrale è alta diciotto metri ed è lunga quindici. Sulla testa ha 125 milioni di tonnellate di sale. Vi si arriva percorrendo una galleria di oltre un chilometro nella quale si aprono quattordici grotte: le stazioni della Via Crucis. Le luci sono fioche, guidano lungo il percorso i canti dei pellegrini. E sotto terra il Cielo è più vicino.
Un po’ scavalcata e un po’ dribblata la Cordigliera orientale, dopo un centinaio di chilometri si arriva a Villa de Leyva. Onore ai suoi amministratori, nei secoli dei secoli, perché la cittadina è com’era, candida e fatata nella quiete dell’epoca coloniale, miracolosamente intatta. Il paese è piccolo, la piazza è grande: centoventi metri per lato, la più grande di tutta la Colombia. E ha la semplice eleganza di un’immensa aia contadina. Quadrata, lastricata di grandi pietre disuguali e sporgenti, una fontana dell’epoca mudejar al centro e, tutt’intorno, basse case bianche dai balconi di legno, qualche locanda, una grande chiesa a dominare l’ampia scena silenziosa. L’ora migliore è il tramonto, quando l’ultimo sole e i primi lampioni lucidano i suoi sassi.
La Colombia è percorsa per il lungo da tre dorsi montagnosi, le Cordigliere, che hanno origine comune nel verde Massiccio colombiano. San Agustin ne è il cuore. Vi si arriva in quattro ore d’auto dall’aeroporto di Neiva, non c’è via più breve. 
La strada costeggia l’impetuoso Rio Magdalena, il più importante fiume del Paese con i suoi millecinquecento chilometri di acque bionde. Un pigmento che cade dagli alberi lo colora alla sorgente, quando il fiume è un toboga di rapide vorticose fra rocce bianche, profondo e stretto: non più di un metro e mezzo da una sponda all’altra, in qualche punto, ma con diciotto metri sotto e una corrente che è un tumulto d’acqua, tanto che molti hanno perso la vita nei suoi gorghi per poter dire: ho saltato il Magdalena con un balzo.
La strada per San Agustin attraversa coltivazioni di cacao, di tabacco e di riso all’ombra di Ceibas centenarie, sale fra mandrie di zebu dal manto bianco e bancarelle di formaggio fresco in cartocci di palma. Cartelli stradali indicano località dal suono familiare: Palermo, Florencia, Venice… I conquistadores non avevano troppa fantasia. Dagli orti dietro casa sbucano piantine di Coca: qualche foglia è permessa, uso personale, per farne tisane contro l’emicrania o ruminarne un po’ quando si è giù di corda. Non è droga, tengono a spiegare, è medicina naturale. Il traffico è a tavoletta: grossi camion dalle cromature splendenti e il muso da bulldog, motociclisti con il numero della targa ripetuto sulla schiena del giubbotto e sul casco: lo impone una legge dei tempi di Escobar, quando i sicari dei narcos prediligevano la moto per il loro lavoro. I tassisti indossano una manica di camicia, una sola: per tenere il braccio fuori dal finestrino senza arrostirlo al sole. Qui picchia. Quando partono, toccano legno, usa così, e si fanno il segno della croce: da come guidano si capisce perché. Ogni tanto una frenata improvvisa: c’è un ingorgo di avvoltoi a banchetto dove un cane ha attraversato la strada soprapensiero.

San Agustin, è il più vasto parco archeologico che esista, un mondo sospeso fra questo e l’altro mondo. E’ la Terra dei morti, solenne monumento all’Aldilà, consolatoria replica dell’Aldiqua. L’antica necropoli è sparsa sulla sommità delle colline, strade ripide e tortuose collegano i siti più importanti: il Parque arqueologico, Alto de los Idolos, La Pelota, El Tablòn, Alto de las Piedras. La cima di una collina è stata spianata, decapitata, gli ingegneri dell’epoca sapevano il mestiere, e nel grande prato, vasto come due campi da calcio e punteggiato da monumenti funerari, si svolgevano le cerimonie più solenni. Altri siti sono nella foresta, protetti dalla vegetazione straripante, spesso accessibili solo a piedi o a cavallo, il che rende ancora più affascinante la loro scoperta. Ai grandi grandi tombe sontuose, ai più comuni morti un buco sotto terra. E sono le prime, inevitabilmente, a destare lo stupore più ammirato, pace all’anima degli altri. Le statue sono oltre cinquecento, alcune piccolissime, la più grande alta sette metri, i soggetti raffigurati hanno sembianze umane e bestiali insieme, impressionante zoo fantastico e mitologico; alcune sculture mostrano ancora ostinate tracce di colore. Chi abitava le colline di San Agustin non ha lasciato altro di sé, se non gli enigmi di queste opere d’arte, rivolte al cielo, il loro cielo affollato di dei, secondo leggi astronomiche complesse ed evolute. Quanta scienza possedevano quegli indios remoti, quanto sapevano non lo sapremo mai. Ed è l’ultimo enigma, il più profondo.
Dal misterioso passato remoto del Massiccio colombiano a Medellin, 
imbarazzante passato prossimo e confortante presente. I suoi “cartelli” oggi esportano rose e garofani, la Colombia ne è la prima produttrice al mondo, e le sue architetture all’avanguardia, le luci delle vetrine, l’unica metropolitana del Paese ne fanno la città più moderna. Proprio la metropolitana è simbolo di riscatto, di un futuro diverso. Linea A verso nord, stazione di Acevedo: qui, davvero, signori si cambia. Una funicolare di cabine trasparenti sale lungo le pendici di una collina, passa su tetti di lamiera a perdita d’occhio, muri improvvisati e bambini scalzi. E’ la favela di Santo Domingo Savio, la più grande fra le tante stese sulle sponde della città. La funicolare ferma in due stazioni intermedie e conclude il suo viaggio proprio nel cuore del “tugurio”, un tempo regno dei narcotraficanti, dove neppure l’esercito osava entrare. Oggi, accanto alla stazione d’arrivo, c’è un grande centro sociale con asilo, teatro e auditorium, c’è una “banca dei poveri”, “Banca Mia” si chiama, dove per garanzia si chiede solo la voglia di risorgere, e c’è una grande biblioteca sempre piena di giovani che da lì cominciano a guardare oltre le fogne a cielo aperto. C’è soprattutto gente in strada, libera di andare, venire, vivere in pace. Libera di sorridere anche agli sconosciuti, come i colombiani sano fare meglio di chiunque altro.
Ferdinando Botero era di Medellin. La centralissima Plazeta de las Esculturas, dove passa tutta la città, è un museo all’aperto delle sue opere, oltre una ventina, e all’ombra delle sue donne ciccione, accanto ai suoi ometti paffuti, la gente chiacchiera, legge, telefona, si bacia. Quell’abbondanza di forme è amica d’ogni gesto.
Rose e garofani, oro e smeraldi, ma anche banane, carbone, petrolio, nichel: la Colombia è ricca. Sono i colombiani che sono poveri. Oltre mezzo milione di famiglie vivono del caffè, di cui il Paese è secondo produttore al mondo, dopo il Brasile. Qui, al bar, si chiede un “tinto” e ha il decantato gusto di montagna: cresce fra i 1300 e i 1700 metri della regione andina, in una fra le più lussureggianti zone della Colombia, la Regione Cafetera, su pendici terrazzate, in mezzo a palmeti, fattorie e torrenti. C’è una piantagione-museo, o parco a tema, nel dipartimento del Quindio, a Calarca: “Recuca” si chiama. Dalla semina alla tazzina passano due anni, qui in due ore si vede tutto e, alla fine, c’è anche un breve corso con assaggio per imparare i segreti di un “tinto” come si deve, e come si beve. A mezz’ora di strada in auto, il bianco villaggio ottocentesco di Salento, souvenir e cotillon in ogni angolo, poi un’altra mezz’ora di salita in jeep o a cavallo e ci sono le palme più sottili e svettanti, l’alpeggio più verde e le mucche più svizzere di tutti i Tropici. E’ un posto che non si sa da dove venga, è la Valle de Cocora. Ad accrescere lo stupore, stracci di nebbia argentati dal sole, nuvole basse che le palme trapassano con i loro colli da giraffa. Forse il cielo è irlandese.
Un appassionato di natura in Colombia non si annoia: il Paese vanta 2300 specie diverse di uccelli, primo al mondo, ed è il secondo per varietà di piante e di farfalle, il terzo per rettili e anfibi, il quarto per mammiferi. E’attraversato da oltre mille fiumi e possiede trentadue parchi nazionali.

Il più famoso è il Parco di Tayrona, ai piedi della Sierra Nevada, a una quarantina di chilometri dalla città di Santa Marta: una foresta sul Mar dei Carabi. Degli indios che l’abitavano un tempo è rimasta una famiglia in cima a una montagna, poche capanne fra i resti in pietra di quello che era un importante villaggio: Pueblito. Occorrono un paio d’ore a piedi, attraverso spiagge e foresta, per raggiungerlo, e qualche provvista di cibo per essere accolti con più cordialità dagli indios. Gli altri abitanti del Parco sono gli ospiti dell’unico, fascinoso albergo - un grappolo di confortevoli capanne stile indios e vista mare - i pochi campeggiatori che hanno trovato da piantare una tenda su una spiaggia e, naturalmente, tutta la fauna che una foresta incontaminata dei Tropici sa offrire: basta fermarsi in silenzio lungo un sentiero, tentare di cancellare la propria presenza. Per qualche istante non succede nulla, tutto tace, poi qualche fruscio, un muoversi di fronde, un batter d’ali, uno scalpiccio alle spalle, un geco che saetta lungo un tronco, una gobba di pelo lucido che taglia il sentiero, il rumore di un ramo che si spezza, un riflesso freddo nell’erba… E, a quel punto, di solito, si preferisce riprendere il cammino, quali altri esseri viventi abitino da quelle parti lo leggeremo sulla guida.
Da un parco naturale a un parco storico, ultima tappa di questo viaggio alle diverse latitudini della Colombia: Cartagena de Indias. Che già suona bene. Le strade e le piazze della città vecchia sembrano quinte di un film di cappa e spada, dai balconcini in legno precipitano cascate di buganvillee, i portoni aperti mostrano patii ombrosi e accoglienti, la colonna sonora la fanno gli zoccoli dei cavalli che portano in giro turisti in carrozzella, e spesse mura cingono il centro storico: lo hanno difeso egregiamente dai pirati, e più recentemente dai palazzinari. Solo qualche piccola incursione è riuscita. A questi ultimi.
Plaza de la Aduana, la più grande e antica della città, Plaza de los Coches, un tempo mercato di schiavi e oggi di dolci sotto il fresco porticato, la grande chiesa di Santo Domingo con il suo campanile pendente, il vicino convento di San Pedro Claver e il riposante giardino interno… Ma quel che c’è da vedere lo si trova anche senza cercare: la città vecchia è piccola, tutto è subito lì. Niente mappe, meglio andare a zonzo, arrivarci per caso, godersi la sorpresa, camminare senza meta. Lasciandosi prendere e portare dalla luce, dai rumori, dal tempo che fu, e pare esserci ancora.