giovedì 26 agosto 2021

SESTRI LEVANTE? TUTTA DA SCOPRIRE di Stefania Zanardi

 



Tutto ha inizio da una piccola e semplice arcata, di quelle tipicamente liguri, disseminate qua e là tra grovigli di vie, viuzze e carrugi, oltrepassate la quale, passo dopo passo il paesaggio muta, si anima del suo verdeggiare, fogliame e  di panorami stupefacenti.

Punta Manara, in località Sestri Levante, rappresenta uno dei promontori più noti della Liguria, amatissimo dagli amanti del trekking ma anche da semplici podisti, poco importa se super allenati, giovani o più agé : subito dopo l’arco , svoltiamo  a sinistra, qualche gradino, una semplice salita e… i nostri occhi si incantano ad ammirare le due Baie – quella del Silenzio (o mare piccolo) e quella delle Favole -. E da qui iniziamo ad immergerci nella macchia mediterranea, tra profumi di pittosforo e di corbezzolo, con i colori più variegati in contrasto col blu cristallino del mare. Ma prima di giungere alla Punta del promontorio, che richiede comunque un po’ di energia e voglia di “scarpinare”, ci imbattiamo nell’Hotel Vis à Vis che nel 2014 ha compiuto ben 50 anni d’età. Non più giovincello ma tuttora pieno di charme, attrattiva turistica e soprattutto… panoramica!

Un Hotel  ubicato in cima ad una collina a cui si può accedere in diverse maniere ; seguendo il precorso che conduce a Punta Manara, dal centro di  Setri  comodamente in ascensore , in auto per un tragitto brevissimo che si può tranquillamente percorrere a piedi (senza dovere dimostrare di essere maratoneti!).

 Ma ciò che rende questo luogo unico e affascinante è la costruzione, unitamente al panorama che si può godere dalla sua  terrazza.

Un Hotel che ricorda  una nave, voluta dal suo costruttore  che aveva lavorato in navi transatlantiche, partendo da Genova per raggiungere gli Stati Uniti o il Sud America.

 Un aperi-cena o un semplice caffè serale  gustati dalla  sua terrazza panoramica, creano momenti deliziosi  e, in condizioni meteo ideali, è possibile ammirare Portofino, Genova e, a volte, pure la Francia.

E restando in ambito di viaggi e crociere,  guai a parlare di primo o secondo piano quando si soggiorna al Vis à vis ! Qui si tratta di ponti giusto  per ricordare una nave sulla terraferma, come ha voluto a suo tempo Giacomo De Nicolai (1911-1990) ,architetto che ha fortemente desiderato riprodurre sul continente un lussuoso transatlantico da crociera !

Riprendiamo il percorso a ritroso ritornando  a calpestare il pavé lastricato del Carrugio , direzione Santa Maria di Nazareth – anche soprannominata La Chiesa Bianca – per giungere alla Baia del silenzio, un’ansa di terraferma dove il mare pare un grande lago, le barche ed i gozzi lì ormeggiati si specchiano nell’acqua confondendosi con il riflesso delle case che sembrano tuffarsi in quell’ondeggiar calmo e fiabesco. Tra gli scogli, ad un certo punto, si erge una piccola statua di colore verde, inginocchiata sopra una scoglio - Il marinaio intento a pescare- che (lavorando di fantasia ) ci rimanda alla Sirenetta di Copenaghen .

Ed è sorpassando l’alta cancellata, che un’altra meraviglia della natura ci accoglie; un tempo monastero di clausura, oggi luogo di visite e incontri, la terrazza (da qualche anno ristrutturata e riabilitata al pubblico ) riceve i  numerosi turisti e (naturalmente i Sestrini) in un abbraccio totalizzante dove  le onde si infrangono su scogli e rocce mentre la baia  sembra sorridere   dalle persiane  delle antiche e caratteristiche abitazioni liguri.

E’ facile imbattersi, soprattutto nelle stagioni primaverili ed estive, in giovani sposi che festeggiano, tra amici e parenti facendosi immortalare in questo angolo di Paradiso terrestre!

Accanto a questa meraviglia, due gradini, un brevissimo percorso e eccoci al Tapullo : luogo  di degustazione per i migliori  e tipici prodotti liguri quali Oli, Vini ma pure spazio polifunzionale per serate tematiche ed eventi privati, degustazione e workshop.

Ma ciò che rende unico questa location è, ancora una volta, il panorama: la Terrazza del Fico affacciata sulla Baia del Silenzio, l’albero al suo centro, il verde lussureggiante, l’aria fresca che giunge la sera dal mare, quando tenue luci si accendono (quasi fossero lucciole)… si potrebbe pensare di trovarsi in Grecia!

Approfittatene, appena potete .

 

 

LO SPETTACOLO DELLA STECCATA DI PARMA di Rita Guidi

 



Circumnavigarla non basta. Anche i turisti, sarà per la vicinanza alla piazza e al Regio sarà per la sua evidente e monumentale bellezza, si fermano spesso ad un’esteriore ammirazione. La Steccata, come comunemente la chiamano i parmigiani, e cioè Santa Maria della Steccata, è infatti subito bella per le sue volute tardo rinascimentali, appena intaccate da una leggera spettacolarità barocca.

 Ma anche entrare non basta. I sandali e le macchine fotografiche dei visitatori si fermano troppo spesso li, all’altezza delle candele e di qualche anziano in preghiera.

 Sarà per il rigore rinascimentale del progetto di Gianfrancesco Zaccagni (1521-1539), che raccoglie la pianta centrale del tempio sull’antico steccato (da qui il nome) destinato a trattenere la folla da una trecentesca miracolosa immagine di S. Giovanni Battista; per la cupola di Antonio da Sangallo e l’affresco dell’Incoronazione della Vergine di Michelangelo Anselmi; per il tocco del Parmigianino nelle due grandi tele alle pareti; o per i marmi all’ingresso (la Pietà e il monumento al Neipperg)... Che certo, potrebbero bastare.

E invece più in là e più in giù bisogna guardare. Più giù, superando la cappella e il nicchione di sinistra, una piccola ma massiccia porta introduce ad una cripta sepolcrale. Sono le tombe dei Farnese, come indica la targhetta su in chiesa, all’ingresso. Una cappella austera ma importante voluta da Maria Luigia nel 1823, per principi, duchi e duchesse. Per l’esattezza quattordici tra duchi e principi e dodici tra principesse e duchesse; non pochi, anche per l’estensione alla casa dei Borbone.

Su tutti troneggia il grande sepolcro di Alessandro Farnese, su cui poggiano l’elmo e la spada. Sul bianco delle lapidi e degli intagli marmorei, dell’altare e delle colonne, un solo tocco di colore: il sarcofago in legno destinato a raccogliere nelle cerimonie funebri le spoglie dei regnanti. Oro, verde e il rosso della croce simbolo dell’Ordine Costantiniano (cui la chiesa a tutt’oggi appartiene), voluto proprio dai Farnese nel 1718.

 L’appartenenza all’Ordine è ricordata da una teoria di nomi, lasciati dalla più alta nobiltà d’Europa: i colori eleganti degli stemmi, con la dicitura “Pregate Pace”, lungo il corridoio che conduce a quello che “più in la”, ancora,  c’è da vedere.

 È la sagrestia nobile: spettacolare e amplissima, introdotta da due alti portali di legno ricamato. Un universo in noce, scurissimo, esaltato dal chiarore del soffitto affrescato e dal rosso dei paramenti sul bancone centrale, realizzato dall’intagliatore milanese Giambattista Mascheroni, tra il 1665 e il 1670 (aiutato tra gli altri anche dal parmigiano Rinaldo Torri).

E un susseguirsi di mascheroni sono proprio gli intarsi che percorrono la parte più bassa di questi immensi armadi. Perché nonostante la loro bellezza, che racconta, salendo, storie pagane che si fanno angeliche, (sull’ingresso una frase del Magnificat), queste pareti sono un vero scrigno, pieno di argenti e paramenti sacri. Con un po’ di fortuna, qualcuno troverà per voi aperture e meccanismi per mostrarvi calici e pianete (splendide quelle del ‘700 ricamate d’oro o realizzate con broccati appartenuti... a gentildonne), candelabri e paliotti d’altare (straordinario quello sbalzato d’argento di primo Settecento) che ancor oggi, a volte, ad esempio per le feste natalizie, vengono utilizzati per adornare la chiesa. . .. ..

Un’ultima curiosità: l’intera sagrestia, ancora perfetta benché mai restaurata, è stata fatta con incastri a coda di rondine e dunque si può totalmente smontare e ricostruire altrove, ovunque.

Anche in paradiso, come dicono da queste parti.

 

                                                                                                             Rita Guidi

sabato 21 agosto 2021

DOVE SPLENDE LA BELLEZZA - LA ROCCA DI FONTANELLATO di Rita Guidi

 


 E’ il castello delle stanze segrete. Un luogo da frugare finché rivela i propri particolari preziosi, le chicche nascoste.

 Rocca Sanvitale, a Fontanellato, è infatti dimora di un casato tranquillo (niente a che vedere anche solo con i Rossi o i Meli Lupi, tanto per parlare del vicinato), ma dalle belle sorprese.

 Virtus ubique refulgit, la virtù splende ovunque, non a caso è il loro motto.

 E che il castello sia comunque bello lo si vede così.  Abbracciato dalla piazza, appoggiato al massiccio torrione quadrato, riflette nell’acqua del grande fossato che lo protegge e circonda, la propria robusta eleganza.

 Un profilo padano del Quattrocento, insomma, aristocratico e forte, anche se con qualche ruga medievale più profonda (una torre fortificata esisteva già due secoli prima) da nascondere come una vezzosa signora.

 Del resto, Gilberto e Gianmartino Sanvitale, ricevettero (e abitarono) il feudo dal Duca Gianmaria Visconti nel 1404, e quindi all’alba di un’età che avrebbe condotto all’eleganza piena solo nel Rinascimento.

 Tutte le tracce si trovano dentro. Oltre il ponte (non più levatoio), la scala coperta, e il loggiato che affaccia sulla corte interna.

 Gli appartamenti oggi visitabili, così come sono stati però ripensati dall’ultimo dei Sanvitale, (quel conte Giovanni che nel 1948 li vendette al Comune), si aprono infatti sulla Sala delle Armi. Tutta stemmi e alabarde (ma anche archibugi, balestre, pistole..) è il racconto di almeno tre secoli di lotte.  Non mancano anche più tranquilli bastoni da passeggio, e, da non perdere, un forziere del ‘500 dal meccanismo di chiusura impossibile e a tutt’oggi funzionante.

 Entrando in Sala da Pranzo, invece, attenti al gatto. Cupo e sornione è lui che ammicca dalle grandi nature morte di Felice Boselli (che si firmava anche così). Seicentesche, come i grandi credenzoni che raccolgono i profondi piatti, sempre con lo stemma, destinati a contenere tutte le portate.

 La successiva Sala del Biliardo, poi, è tutto fuorchè un. . . piatto unico. Tracce d’Ottocento si alternano ai quattrocenteschi pavimenti e alle tele di nuovo del Boselli o dello Spolverini, già nel ‘700. Secolo che trionfa nella Sala da Ricevimento, più spaziosa e frivola, anche nell’ elegante clavicembalo.

 A noi è piaciuta di più la Camera Nuziale. Più cupa, con qualche ritratto di cui avremmo anche fatto a meno, mantiene però forte la suggestione dei secoli nel legno arrotolato del grande letto, nello splendido soffitto a lacunari, nel camino. La prima chicca, tra l’altro, il primo dubbio (il primo mistero) è qui. Un Van Dyck, forse. Una Madonna senza certa attribuzione ma dalla mano di sicuro artista. E poi due rarità: uno dei due soli ritratti esistenti di Marta Gonzaga, e quello altrettanto raro di Barbara Sanseverino Sanvitale, la contessa di Colorno famosa per fascino e cultura, quanto per la triste fine; fu fatta decapitare da Ranuccio I Farnese nel 1612 per una pretesa congiura contro di lui.

 A parte lei, comunque, i Sanvitale ci sono tutti nella Galleria degli Antenati. Corridoio denso di volti che attraversano gli otto secoli di questa lunga ed estinta dinastia.  Tra loro il Conte Galeazzo Sanvitale. Che se lo guardate bene, in questa posa ripresa da un pittore del Settecento, non può non rammentarvi quell’altra, celebre e dalla ben diversa leggiadria, del Parmigianino.  Chiamato a corte nel 1524, quando il grande artista aveva solo ventun anni, regalò a Fontanellato ben più del bel ritratto del suo committente. Una stanza segreta. Uno spazio appartato, silenzioso e splendido. Un rifugio raccolto, buio, misterioso e luminoso. E’ la saletta di Diana e Atteone. Il gioiello della Rocca dalla storia altrettanto preziosa. Piccola, nascosta, a piano terra, lontano dal chiasso delle sale di rappresentanza, senza finestre, con una sola porta, fu voluta appunto così, solitaria e splendida da Galeazzo Sanvitale. O forse è più giusto immaginare da lui e dalla moglie, Paola Gonzaga. Madre di nove figli, la giovane e bella sposa del Conte ne perse infatti uno in tenerissima età. Quella stanza, quella saletta, è allora per lui e per lei, per ricordarlo e per ricordarsene, sopportando lontano da tutti la propria sofferenza silenziosa. Il piccolo è lì, una testa di putto, e c’è anche la madre. E il contorno è il più esatto: dalle metamorfosi di Ovidio, la vicenda di Atteone. Giovane cacciatore “colpevole” di aver sorpreso la dea Diana al bagno, e che per questo, trasformato in cervo, viene sbranato dai suoi stessi cani. Al centro del soffitto (del cielo…), uno specchio con la dicitura: respice finem. Osserva la fine. La fine ingiusta, per la distrazione fatale di Atteone e per il destino distratto che ha “punito” un bimbo.

 Forse il dolore poteva trasformarsi in contemplazione, qui. (Virtus ubique refulgit. . .)  Con gli occhi sulla bellezza dei colori e sul bianco dei corpi che un poco misteriosamente esce e si rivela, nonostante il buio, dalla parete. Del resto si dice che Paola Gonzaga si recasse qui anche senza una sola candela. Si dice, perché della saletta le certezze sono poche (nemmeno il Vasari la cita), riscoperta (all’insaputa degli stesso abitanti) solo un secolo e mezzo dopo la scomparsa della sua frequentatrice.

 Un occhio segreto, eppure non l’unico, esistente tra le pieghe del castello. Questa volta salendo, su, fino al giardino pensile, nella torretta, c’è infatti la camera ottica. Un meccanismo di prismi per osservare con precisione da telecamera (e di nuovo nel buio) quanto accade nella piazza sottostante. Un gioco per riflettere la vita. Obbedienza tarda (è di fine Ottocento) allo stesso motto di sempre.


venerdì 6 agosto 2021

QUANDO LA PASSIONE (E LA PROFESSIONE...) FA RIMA CON NATURA - INTERVISTA A RENATO CARINI di Stefania Zanardi

 


 

Andar per parchi, passeggiare, seguire percorsi più o meno semplici a volte più accidentati e impegnativi, immergersi nella natura tra flora e fauna, assaporando quel senso di simbiosi che ci avvicina alle altre specie viventi.

Per tutti si tratta di esperienze piacevoli ma, per alcuni, rappresenta qualcosa di molto più profondo che nasce da una passione estrema, affascinante e altrettanto impegnativa.

Come è accaduto a Renato Carini, attratto inesorabilmente sin da bambino verso  ogni forma animale , in particolare uccelli selvatici che – già da molto piccolo- amava disegnare, ricopiando le immagini dai libri che possedeva a dismisura.

Si – inizia a raccontarci – la mia è stata una passione estrema che mi ha sempre accompagnato, la prima guida di riconoscimento dell’avifauna, l’ ho avuta in regalo a 8 anni d’età. Purtroppo – causa problemi familiari – ho dovuto per qualche tempo mettere nel cassetto queste mie velleità, ma le tematiche del rispetto di natura ed ambiente non mi hanno mai abbandonato ”-

E così, a vent’anni, questa pulsione riemerge e, insieme ad un amico decide di presentarsi alla Lipu proprio per avvicinarsi al mondo animale, in particolare al settore degli uccelli selvatici.

Ricordo benissimo- prosegue Renato- quando abbiamo bussato alle porte  della Lipu dove, in seguito,  sono rimasto in qualità di volontario per tantissimo tempo per assumere poi,  per alcuni anni il ruolo di rappresentante della Sezione di Parma” .

Renato segue vari corsi, incrementa le sue conoscenze ed  i suoi interessi in questo campo fino al momento in cui la passione della sua vita viene a coincidere con la sua professione.

Esatto- sottolinea – negli anni ‘90 i Parchi neo-nati assumevano personale, entrai in questa realtà a piè pari grazie al superamento di un concorso che mi permise di lavorare come “ guardiaparco” ; il luogo era il massimo per me , il Parco del Taro (noto pure come Parco di Giarola) , un luogo appartenente alle aree protette (di Parma e Piacenza), un Ente Parchi nominato in seguito Parchi del Ducato.”

Ma, si sa, gli uccelli volano e per studiarne usi, abitudini e costumi, è necessario muoversi ; è per questo che  la sua passione porta Renato a percorrere l’ Italia in lungo ed in largo tra montagne, isole, Alpi, a sud e  a nord del nostro Stivale, , ammirandone i paesaggi e i suoi abitanti “selvatici” ,ma pure persone interessanti e ricche di esperienza.

Quali diversità hai riscontrato tra l’ ambiente parmense e le altre zone d’Italia dal punto di vista umano ed ambientale  ?– gli chiedo  

“ Ovunque ho incontrato persone molto motivate ed appassionate e,dal punto di vista ambientale, l’Italia è davvero un paese bellissimo. Per quanto riguarda la tutela della fauna, posso dire che la nostra zona è piuttosto fortunata in quanto non c’è una forte tradizione di cattura a scopo gastonomico dei piccoli uccelli come putroppo avviene in diverse regioni italiane e di conseguenza, il bracconaggio  a queste specie è poco frequente.”

Ma quando una passione si trasforma in lavoro o professione, qualcosa cambia: chissà cosa è rimasto del “fuoco sacro” che Renato ha conservato in sé….

Restano i piccoli e grandi successi – mi risponde risoluto –  lavorare in un Ente Pubblico consente di accedere a progetti di grande valore per la tutela della natura ; certo occorre adeguarsi alle normative della pubblica amministrazione che, a volte, possono sembrare rallentare l’operatività, ma servono per garantire la trasparenza sull’uso dei soldi del cittadino. Inoltre  non smorzano i risultati che mi stimolano a proseguire, altrettanto per i progetti che mantengono accesa la fiammella donandoti l’impressione di scegliere la cosa più efficace.”

Sfortunatamente, non tutte le persone pensano ed agiscono in modo corretto e rispettoso nei confronti della natura : purtroppo notizie di sfruttamento, distruzione, violenza nei riguardi del pianeta si moltiplicano a dismisura e, a questo punto, desidero conoscere il suo parere.

Chi lavora in questo campo come vive le preoccupazioni verso il nostro pianeta, quali i progetti possibili per combattere il grande disfacimento della  Terra?”

Personalmente sono alquanto preoccupato e pessimista – incalza Renato- il grande problema di cui poco si parla ma che, a mio parere, sta emergendo è il sovrappopolamento, una crescita esponenziale e la terra non produce più a sufficienza ciò che noi umani consumiamo. I paesi maggiormente sviluppati, hanno uno stile di vita basato su uno sfruttamento di risorse naturali troppo elevato e, quando i paesi del cosiddetto terzo mondo chiederanno lo stesso livello di consumi energetici, il prezzo da pagare sarà mangiarsi il pianeta. La natura ne pagherà il prezzo, soprattutto le altre specie animali, più ancora della specie umana, in quanto Flora e Fauna hanno spazi sempre più ristretti e ciò provocherà l’estinzione”.

Un panorama da brividi che cerco di contrastare (almeno idealmente) cercando consolazione nel racconto dei numerosi parchi che circondano Parma e dintorni.

I nostri Parchi – mi spiega Renato- posseggono una varietà di ambienti stupefacente : come Parma Morta, un vecchio meandro del torrente Parma, abbandonato con caratteristiche uniche o il Parco dello Stirone che tutt’ora mostra una serie di pareti dove si trovano fossili paragonabile ad un museo a cielo aperto, senza dimenticare il Parco del Taro esempio straordinario di tratto fluviale in alta pianura, molto ben conservato, che non ha paragoni in Emilia Romagna. Si arriva poi ai Boschi di Carrega – sottolinea- un esempio di antica Riserva di caccia per nobili, che ha consentito il mantenimento di un Bosco e che non ha eguali in zone limitrofe. Proseguendo, come dimenticare il Parco dei 100 laghi o il Parco   Nazionale Appennino Tosco Emiliano che offre un crinale paesaggisticamente interessante.”

Mi sorge una domanda a bruciapelo -” E quindi, ad una ragazza o un ragazzo con la tua stessa passione ed interesse per la natura consiglieresti il percorso fatto da te?”

Assolutamente si! - afferma convinto- in primo luogo consiglierei di fare volontariato iniziando da subito, perché donare senza la pretesa di ricevere nulla (almeno sul momento) è una bellissima esperienza. Magari il compenso o a ricompensa arriverà in futuro e in tutti i modi, al di là di trasformare la passione in professione, ti permette di avvicinarti a realtà diverse, confrontarsi con associazioni e persone fantastiche. Altro consiglio – spiega – è muoversi, viaggiare, collaborare con varie associazioni ambientaliste di tutt’Italia che propongono meravigliosi progetti, sempre nella tutela dell’ambiente e dei suoi abitanti. Altra opportunità – riflette un attimo Renato- può essere insegnare educazione ambientale per educare le future generazioni, sono i primi passi che si possono compiere fin da giovanissimi.”

Il suo entusiasmo non scema e provo con una domanda alternativa.

Troverai pure alcuni aspetti difficili, controversi, che ti fanno pensare “ Io mollo tutto”-

A volte si, soprattutto quando noto l’approccio umano verso animali e fauna selvatica solo a scopo opportunistico, quando questi vengono considerati come oggetto da divertimento o da sopprimere. Questo mi spaventa e mi fa male, perché evidenzia quanto il futuro della biodiversità sia a rischio e, molto probabilmente, chi mostra questi comportamenti non ha a cuore la salvaguardia e la vita di altri esseri umani, ma solo la propria.

Le aree protette ed i parchi non sono unicamente luoghi per fare attività fisica e ludica ma, soprattutto sono nati per la tutela della biodiversità”.

A buon intenditor, poche parole….