E’ il castello delle stanze segrete.
Un luogo da frugare finché rivela i propri particolari preziosi, le chicche
nascoste.
Rocca Sanvitale, a Fontanellato, è infatti
dimora di un casato tranquillo (niente a che vedere anche solo con i Rossi o i
Meli Lupi, tanto per parlare del vicinato), ma dalle belle sorprese.
Virtus ubique refulgit, la virtù splende
ovunque, non a caso è il loro motto.
E che il castello sia comunque bello lo si
vede così. Abbracciato dalla piazza,
appoggiato al massiccio torrione quadrato, riflette nell’acqua del grande
fossato che lo protegge e circonda, la propria robusta eleganza.
Un profilo padano del Quattrocento, insomma,
aristocratico e forte, anche se con qualche ruga medievale più profonda (una
torre fortificata esisteva già due secoli prima) da nascondere come una vezzosa
signora.
Del resto, Gilberto e Gianmartino Sanvitale,
ricevettero (e abitarono) il feudo dal Duca Gianmaria Visconti nel 1404, e
quindi all’alba di un’età che avrebbe condotto all’eleganza piena solo nel
Rinascimento.
Tutte le tracce si trovano dentro. Oltre il
ponte (non più levatoio), la scala coperta, e il loggiato che affaccia sulla
corte interna.
Gli appartamenti oggi visitabili, così come
sono stati però ripensati dall’ultimo dei Sanvitale, (quel conte Giovanni che
nel 1948 li vendette al Comune), si aprono infatti sulla Sala delle Armi. Tutta
stemmi e alabarde (ma anche archibugi, balestre, pistole..) è il racconto di
almeno tre secoli di lotte. Non mancano
anche più tranquilli bastoni da passeggio, e, da non perdere, un forziere del
‘500 dal meccanismo di chiusura impossibile e a tutt’oggi funzionante.
Entrando in Sala da Pranzo, invece, attenti al
gatto. Cupo e sornione è lui che ammicca dalle grandi nature morte di Felice
Boselli (che si firmava anche così). Seicentesche, come i grandi credenzoni che
raccolgono i profondi piatti, sempre con lo stemma, destinati a contenere tutte
le portate.
La successiva Sala del Biliardo, poi, è tutto
fuorchè un. . . piatto unico. Tracce d’Ottocento si alternano ai
quattrocenteschi pavimenti e alle tele di nuovo del Boselli o dello Spolverini,
già nel ‘700. Secolo che trionfa nella Sala da Ricevimento, più spaziosa e frivola,
anche nell’ elegante clavicembalo.
A noi è piaciuta di più la Camera Nuziale. Più
cupa, con qualche ritratto di cui avremmo anche fatto a meno, mantiene però
forte la suggestione dei secoli nel legno arrotolato del grande letto, nello
splendido soffitto a lacunari, nel camino. La prima chicca, tra l’altro, il
primo dubbio (il primo mistero) è qui. Un Van Dyck, forse. Una Madonna senza
certa attribuzione ma dalla mano di sicuro artista. E poi due rarità: uno dei
due soli ritratti esistenti di Marta Gonzaga, e quello altrettanto raro di
Barbara Sanseverino Sanvitale, la contessa di Colorno famosa per fascino e
cultura, quanto per la triste fine; fu fatta decapitare da Ranuccio I Farnese
nel 1612 per una pretesa congiura contro di lui.
A parte lei, comunque, i Sanvitale ci sono
tutti nella Galleria degli Antenati. Corridoio denso di volti che attraversano
gli otto secoli di questa lunga ed estinta dinastia. Tra loro il Conte Galeazzo Sanvitale. Che se
lo guardate bene, in questa posa ripresa da un pittore del Settecento, non può
non rammentarvi quell’altra, celebre e dalla ben diversa leggiadria, del
Parmigianino. Chiamato a corte nel 1524,
quando il grande artista aveva solo ventun anni, regalò a Fontanellato ben più
del bel ritratto del suo committente. Una stanza segreta. Uno spazio appartato,
silenzioso e splendido. Un rifugio raccolto, buio, misterioso e luminoso. E’ la
saletta di Diana e Atteone. Il gioiello della Rocca dalla storia altrettanto
preziosa. Piccola, nascosta, a piano terra, lontano dal chiasso delle sale di
rappresentanza, senza finestre, con una sola porta, fu voluta appunto così,
solitaria e splendida da Galeazzo Sanvitale. O forse è più giusto immaginare da
lui e dalla moglie, Paola Gonzaga. Madre di nove figli, la giovane e bella
sposa del Conte ne perse infatti uno in tenerissima età. Quella stanza, quella
saletta, è allora per lui e per lei, per ricordarlo e per ricordarsene,
sopportando lontano da tutti la propria sofferenza silenziosa. Il piccolo è lì,
una testa di putto, e c’è anche la madre. E il contorno è il più esatto: dalle
metamorfosi di Ovidio, la vicenda di Atteone. Giovane cacciatore “colpevole” di
aver sorpreso la dea Diana al bagno, e che per questo, trasformato in cervo,
viene sbranato dai suoi stessi cani. Al centro del soffitto (del cielo…), uno
specchio con la dicitura: respice finem.
Osserva la fine. La fine ingiusta, per la distrazione fatale di Atteone e per
il destino distratto che ha “punito” un bimbo.
Forse il dolore poteva
trasformarsi in contemplazione, qui. (Virtus
ubique refulgit. . .) Con gli occhi
sulla bellezza dei colori e sul bianco dei corpi che un poco misteriosamente
esce e si rivela, nonostante il buio, dalla parete. Del resto si dice che Paola
Gonzaga si recasse qui anche senza una sola candela. Si dice, perché della
saletta le certezze sono poche (nemmeno il Vasari la cita), riscoperta
(all’insaputa degli stesso abitanti) solo un secolo e mezzo dopo la scomparsa
della sua frequentatrice.
Un occhio segreto, eppure non l’unico,
esistente tra le pieghe del castello. Questa volta salendo, su, fino al
giardino pensile, nella torretta, c’è infatti la camera ottica. Un meccanismo
di prismi per osservare con precisione da telecamera (e di nuovo nel buio)
quanto accade nella piazza sottostante. Un gioco per riflettere la vita.
Obbedienza tarda (è di fine Ottocento) allo stesso motto di sempre.
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