Circumnavigarla non basta. Anche i turisti, sarà per la vicinanza alla piazza e al Regio sarà per la sua evidente e monumentale bellezza, si fermano spesso ad un’esteriore ammirazione. La Steccata, come comunemente la chiamano i parmigiani, e cioè Santa Maria della Steccata, è infatti subito bella per le sue volute tardo rinascimentali, appena intaccate da una leggera spettacolarità barocca.
Ma anche
entrare non basta. I sandali e le macchine fotografiche dei visitatori si
fermano troppo spesso li, all’altezza delle candele e di qualche anziano in
preghiera.
Sarà per
il rigore rinascimentale del progetto di Gianfrancesco Zaccagni (1521-1539),
che raccoglie la pianta centrale del tempio sull’antico steccato (da qui il
nome) destinato a trattenere la folla da una trecentesca miracolosa immagine di
S. Giovanni Battista; per la cupola di Antonio da Sangallo e l’affresco
dell’Incoronazione della Vergine di Michelangelo Anselmi; per il tocco del
Parmigianino nelle due grandi tele alle pareti; o per i marmi all’ingresso (la
Pietà e il monumento al Neipperg)... Che certo, potrebbero bastare.
E invece più in là e più in giù bisogna
guardare. Più giù, superando la cappella e il nicchione di sinistra, una
piccola ma massiccia porta introduce ad una cripta sepolcrale. Sono le tombe
dei Farnese, come indica la targhetta su in chiesa, all’ingresso. Una cappella
austera ma importante voluta da Maria Luigia nel 1823, per principi, duchi e
duchesse. Per l’esattezza quattordici tra duchi e principi e dodici tra
principesse e duchesse; non pochi, anche per l’estensione alla casa dei
Borbone.
Su tutti troneggia il grande sepolcro di Alessandro Farnese, su cui poggiano l’elmo e la spada. Sul bianco delle lapidi e degli intagli marmorei, dell’altare e delle colonne, un solo tocco di colore: il sarcofago in legno destinato a raccogliere nelle cerimonie funebri le spoglie dei regnanti. Oro, verde e il rosso della croce simbolo dell’Ordine Costantiniano (cui la chiesa a tutt’oggi appartiene), voluto proprio dai Farnese nel 1718.
L’appartenenza all’Ordine è ricordata da una
teoria di nomi, lasciati dalla più alta nobiltà d’Europa: i colori eleganti
degli stemmi, con la dicitura “Pregate Pace”, lungo il corridoio che conduce a
quello che “più in la”, ancora, c’è da
vedere.
È la
sagrestia nobile: spettacolare e amplissima, introdotta da due alti portali di
legno ricamato. Un universo in noce, scurissimo, esaltato dal chiarore del
soffitto affrescato e dal rosso dei paramenti sul bancone centrale, realizzato
dall’intagliatore milanese Giambattista Mascheroni, tra il 1665 e il 1670
(aiutato tra gli altri anche dal parmigiano Rinaldo Torri).
E un susseguirsi di mascheroni sono proprio gli
intarsi che percorrono la parte più bassa di questi immensi armadi. Perché
nonostante la loro bellezza, che racconta, salendo, storie pagane che si fanno
angeliche, (sull’ingresso una frase del Magnificat), queste pareti sono un vero
scrigno, pieno di argenti e paramenti sacri. Con un po’ di fortuna, qualcuno
troverà per voi aperture e meccanismi per mostrarvi calici e pianete (splendide
quelle del ‘700 ricamate d’oro o realizzate con broccati appartenuti... a
gentildonne), candelabri e paliotti d’altare (straordinario quello sbalzato
d’argento di primo Settecento) che ancor oggi, a volte, ad esempio per le feste
natalizie, vengono utilizzati per adornare la chiesa. . .. ..
Un’ultima curiosità: l’intera sagrestia, ancora
perfetta benché mai restaurata, è stata fatta con incastri a coda di rondine e
dunque si può totalmente smontare e ricostruire altrove, ovunque.
Anche in paradiso, come dicono da queste parti.
Rita Guidi
Nessun commento:
Posta un commento