mercoledì 28 aprile 2021

DOVE E' NATA LA MUSICA - LA CASA NATALE DI VERDI di Rita Guidi


 


  L’osteria di Roncole era lontana al punto giusto. Per i musicanti di ritorno da Borgo San Donnino, dopo un’intera giornata spesa in canti e risate alla sagra del paese, non avrebbe potuto esserci nulla di meglio, in quella tiepida sera d’autunno: prima di fare rientro a casa, un po’ di sosta per i cavalli, e una scodella di vino sincero per rinfrancare la gola. Da Verdi. Che a quanto pare, esattamente quella sera, era indaffarato non solo a servire i soliti clienti ma anche a diventare papà.

 Giuseppe Verdi, anzi, Giuseppe Fortunino Francesco Verdi venne infatti al mondo qui, alle otto di sera di quel 10 ottobre 1813. Qui, e cioè al piano di sopra di questa sua prima casa di Roncole (di Roncole, non di Busseto: “Sono stato e sarò sempre un paesano di Roncole”, scriveva lui stesso nel 1863), che era appunto anche osteria e cantina, stazione di posta e camera da letto… Luogo di vita e di lavoro, così come chiedeva la realtà rurale d’Ottocento.  E venne al mondo al suono della musica (poteva non essere così?), quella degli allegri clienti cha papà Carlo stava dissetando giù dabbasso.

 Adesso, invece, c’è silenzio. Tra queste mura pulite (appena adesso restaurate), dentro le quali si ascoltano curiose parole : “di là il forno, più su la legnaia…” E anche da fuori, se non fosse per il rintocco secolare di una campana, arrivano rumori moderni e diversi: motori, clacson, frastuoni di strada e di passaggio. Comunque assopiti.

 Ma dentro è un silenzio da ascoltare con gli occhi. Perché c’è l’ingresso, dopo il grande portone, che apriva subito al grande tavolo dell’osteria; e ci sono le tazze, anzi, le scodelle di legno, proprio quelle che arrivano da quei giorni di primo Ottocento, preziose e brune, anche se certo il nostro piccolo Giuseppe non vi bevve mai…; e i pavimenti corrosi e le travi, la luce facile da immaginare fioca, elargita dai camini e dalle fiorentine…

  Ma più di tutto c’è un’eco. L’emozione e il suono di un primo sorriso; o forse un pianto (una caduta?). I passi. Un bambino che arrampica in fretta lungo queste strettissime scale. L’infanzia normale del maestro più celebre. Le piccole finestre sicure dalle quali iniziò ad affacciarsi alla sua grande vita.

 E davvero il restauro di questa semplice dimora che ora è monumento nazionale aiuta insieme a comprendere e a fantasticare. Il rigore delle scelte, che ha sottolineato l’essenzialità delle strutture e dei muri, e che ha preferito suggerire (senza falsamente sostituire) nelle scelte d’arredo, aiuta a enfatizzare lo spazio e le assenze. A far muovere tra il braciere e il camino Luigia Uttini, la madre del nostro Verdi; a far frugare Carlo tra le damigiane e i salumi della ghiacciaia-dispensa; a far affacciare il piccolo Giuseppe al davanzale dell’unica camera da letto. Quella che guarda oggi come allora alla piazza e alla chiesa di San Michele. Prima occasione, per lui, di diventare Giuseppe Verdi. Non solo per il battesimo, naturalmente; perché è vero che qui è stato battezzato (in francese, chè Roncole apparteneva al napoleonico Dipartimento del Taro). Ma soprattutto perché sullo stesso organo che ascoltiamo oggi, le sue mani infantili armeggiarono per la prima volta con le note, sotto la guida di Pietro Baistrocchi. Forse prima o più probabilmente dopo che il nostro Giuseppe chierichetto, rapito (guardacaso) dalla musica, dimenticasse di servire messa, rimediando così una sonora pedata dall’allora parroco Don Jacopo Masini.

 Sculacciata celebre assai più di qualcun’altra che nei dieci, undici anni trascorsi in questa sua prima radice avrà dovuto subire. E delle quali resta forse l’eco di un pianto; ma ancor più di tanti sorrisi, se è vero come è vero che il ricordo indelebile di queste stanze e queste scale è stampato nel disegno che lui stesso volle per la sua Villa di S.Agata, villaggio nativo dei genitori e sua dimora di uomo già celebre e maturo. Ma questo è un altro discorso.

 

                                      Rita Guidi

 

 


 

giovedì 22 aprile 2021

BELLA PARMA - LA CAMERA DI SAN PAOLO di Rita Guidi

 

  


Non c’è nessun dubbio che le piacesse guardare in alto, verso il cielo di Dio come a quello degli uomini. Che badessa di un convento rinascimentale, del suo ruolo e del suo tempo amasse quanto di grande e di nuovo ci fosse da scoprire.

 Si chiamava Giovanna Piacenza. Figlia di illustre casato, colta e curiosa come a poche donne la storia concesse di essere, è appunto lei la badessa posta a capo del convento delle monache benedettine di S.Paolo il 24 maggio del 1507.  Ventotto anni, un carattere imperioso e un’altrettanto decisa vitalità, se insomma vi ostinate a pensarla come una monaca a capo di altre monache è senz’altro il caso di intendersi. Più che badessa, piccola sovrana, Giovanna governa infatti quello che è il più blasonato e modaiolo convento dell’epoca, con il polso e l’allegria che derivano dai modi suoi e del suo tempo. Nominata a vita, libera di scegliere a chi e come far amministrare i suoi beni, appassionata d’arte e di lettere, è una figura potente, viva, libera e combattiva proprio per difendere questa sua preziosa libertà. Non a caso, su di lei (e su quelle come lei) incombe il pericolo della clausura: di quella delibera papale che arriverà (e davvero arriverà) a tacere la presunta troppa mondanità dei monasteri femminili, a murare quella religiosità lieta della quale però, proprio grazie a lei, conserviamo le tracce. Perché Giovanna combatte, certo, ma intanto guarda su e guarda avanti. Vuole la novità e la bellezza. Chiama, e certo non può essere un caso, il pittore lieto, Antonio Allegri detto il Correggio, a inventarle il cielo di una stanza. A firmare quella che conosciamo sinteticamente come la “camera di S.Paolo” e che è solo una delle sei che diverranno il suo “regale” appartamento.

 Nasce così questo capolavoro. Come una scoperta improvvisa, segreta e forte: prima opera parmigiana del più marginalmente grande degli artisti, luogo a lungo rubato alla celebrità e agli sguardi per aver seguito come la badessa (e quelle dopo di lei) le regole della clausura, camera che è ancor oggi per noi emozione certa. Perché basta un passo ed è Rinascimento. Perché prima c’è il resto, le pareti austere, l’eco del Medio Evo, i colori eleganti dell’Araldi, che firma con classe la camera precedente… Ma basta un passo e siamo già lontani, in alto e dopo. Verso la realizzazione di quella nuova bellezza che al giovane Correggio bastava aver anche solo fiutato. Quella che a Roma parlava la lingua di Michelangelo o Raffaello.

 A Parma è “ancora” il 1518, ma la scoperta del nuovo mondo nell’arte è affidata a lui. E inizia a maturare proprio qui. Su queste venature che irraggiano ghirlande eleganti e festose; sul gioco regolare e classico delle lunette, insieme esatte, bianche e misteriose; su quegli occhi di paradiso aperti nel verde dai quali ci sorridono i putti, intenti a giocare con archi e frecce, a carezzare i cani o suonare il corno. Ma sempre tondi, mossi e felici.

 Il significato? Le risposte potrebbero essere mille. Ma se la certezza del racconto è rimasta intrappolata dal silenzio dell’autore e della sua rinascimentale committente, vale qualche ipotesi e anche qualche breve sicurezza.  E’ infatti forse lecito pensare che questo sia solo un capitolo di una storia lunga sei stanze, e che allora forse è qui che si raccoglie la simbologia dei principi morali e dottrinali attraverso i quali si raggiunge la virtus. Quel che è certo, invece, è che sia “lei” (Giovanna) la Diana che decora il camino; che al centro di queste sedici nervature d’arte ci sia il suo stemma, l’oro con le tre lune falcate del suo casato; e che l’autore di tutto questo sia quello che lei stessa ha scelto.  L’artista il cui nome è già scritto nello sguardo rotondo dei suoi putti e amorini. Allegri. Quell’Antonio Allegri detto da Correggio, che spesso amava firmarsi anche Lieto, o “Leto”, latinamente, come tanto piaceva all’universo umanista e alla nostra Giovanna. Così come le piacevano le novità di ogni Paradiso. Quel contorno di tondi angioletti gioiosi sui quali alzare lo sguardo; con i quali addormentarsi. E magari svegliarsi, nell'uno o nell’altro cielo.

domenica 18 aprile 2021

BELLA PARMA - SANTA MARIA DEGLI ANGELI di Rita Guidi

 




I capelli degli angeli: ricciuti sempre, teneri e rigonfi, ma anche, a volte, spettinati o incollati alla testa.

Potete farvene un'idea entrando nella suggestiva chiesa dai mille nomi che è proprio in fondo a via Farini, a Parma: è l'Addolorata, la chiesa delle Cappuccine o del Bambin Gesù, ma più di tutti suo è il nome nel quale è sorta, Santa Maria degli Angeli.

 I capelli degli angeli sono ricciuti e tanti: Giovan Battista Tinti dedica quattordici giorni, nell'agosto 1588, a dipingere numerosissime teste per affrescare questa cupola. Un giorno intero per lo Spirito Santo, un altro giorno per il volto della Vergine... Centotredici giorni complessivi per realizzare questo affollato paradiso, ispirandosi in parte (così le più recenti interpretazioni dei critici) alla cupola correggesca del Duomo .

  C'è infatti una vicina ma più raccolta suggestione, entrando qui. La luce rubata dai colori e dai marmi; la penombra, che invita al silenzio e allo sguardo, cosi diversa dalla serena dolcezza chiara della facciata e del cortiletto esterno, educatamente rinascimentale.

 Le colonne di granito intenso, rotte solo dal folto dei capitelli chiari, non un attimo di spazio se non quello sottratto dal tempo nelle navate e nelle pareti affrescate, comunicano subito suggestione e storia. Secolare: il 12 agosto del 1569 la chiesa (costruita lo stesso anno) è consacrata sul luogo dove già sorgeva una miracolosa immagine della Madonna.  Senza angeli, come, dapprima, anche l'interno di questo tempio, progettato così da Gian Francesco Testa.

 Sarà sempre lui a suggerire le prime modifiche ed ampliamenti, in difesa del suo progetto originario contro quanti chiedevano per la miracolosa Madonna una collocazione più degna e ben visibile.

 Nel 1587 l'ampliamento è finito ma le pareti vuote. È a questo punto, abbiamo detto, che arrivano gli angeli: sulla cupola del Tinti, prima, ma ben presto in tutte le navate, ad opera, attenzione, dei fratelli Bernabei, e non di Giovanni Maria Conti come si supponeva.

Un'attribuzione di recente documentata e che dunque conferma almeno due secoli di sospetti. Il clima di questo Paradiso va già abbracciando una nuova sensibilità, vicina al Seicento e ai maestri bolognesi, pur senza dimenticare le radici (Correggio, Parmigianino...)

 Una sintesi, come sottolineano critici e studiosi, tra la compostezza classica, l'eleganza, il naturalismo e il sentimento religioso.

 Con questo spirito si tracciano i soggetti, non di rado suggeriti dagli umanisti o dagli eruditi del tempo: la storia della Madonna o quella di Cristo, chiudono anche cronologicamente gli affreschi di Santa'Maria (oggi) Addolorata, alla fine del 1629. Nemmeno dieci anni dopo, occorrerà gia' qualche restauro in quello che è ormai un affresco totale. I più recenti, invece, risalgono già a una quindicina d’anni fa, e hanno restituito tutto l'incanto della chiesa quando ancora portava il suo primo nome.

Una cura necessaria: i capelli degli angeli, si sa, sono delicati.

 

 

                                                 Rita Guidi

 

 

domenica 11 aprile 2021

FERMARE LO SGUARDO SULLA BELLEZZA - IL BATTISTERO DI PARMA di Rita Guidi

 



Figure mostruose alle soglie del mondo in attesa del Verbo ; o Re Magi in cammino, come istantanee di pietra sopra il grande portale.

  Si’, possiamo dire che è bello senza essere banali : il Battistero invita ad un piacere estetico che salta agli occhi senza chiedere altro. Ma fin dal momento in cui impone, per questo, una sosta, rivela quell’altra bellezza : quello spessore, intagliato nella durezza dei marmi come nella fragilità degli affreschi, che solo sa renderla eterna. Chiamatela storia. Chiamiamola arte : l’arte dentro il guscio, come l’umanità sotto un volto o la sostanza dietro le parole. Ma è un quesito, questa volta, da indagare oltre il primo sguardo.

Lo hanno fatto ( con quel di nuovo che solo ciò che è eterno consente ) un gruppo di studiosi i cui saggi sono ora raccolti nello splendido volume edito da Einaudi “Benedetto Antelami e il Battistero di Parma” curato da Chiara Frugoni. Ed è la stessa curatrice a chiarirci vicende e motivazioni del libro...

L’idea è nata quasi in parallelo al restauro, dunque molto tempo fa. - ricorda la Frugoni - E dopo quattro, cinque anni di lavoro è davvero solo un caso che il risultato lo si possa raccogliere proprio adesso in coincidenza con l’ottavo centenario del Battistero stesso. L’impegno, anche in termini editoriali (dunque un grazie alla Einaudi) è stato davvero notevole. Basti pensare a qualche numero : le figure sono 495, di cui 215 a colori, oltre all’ultima tavola che, rielaborata al computer consente di vedere l’interno del Battistero tutto insieme. Quanto poi all’impostazione, ci sembrava necessario affrontare il discorso nel modo piu’ interdisciplinare possibile...”

Albert Dietl, Saverio Lomartire, Willibald Sauerlander, Bruno Zanardi, oltre alla stessa Frugoni, che oltre ad esserne la coordinatrice firma l’introduzione ed un prezioso contributo, sono infatti l’equipe prescelta...

Sauerlander potremmo definirlo uno specialista dell’Antelami - spiega la Frugoni - : figura che qui rilegge con occhi nuovi, come una personalità tipicamente italiana.  Lomartire lo è invece in storia dell’architettura : i rilievi e le foto da lui realizzate, dimostrano come il battistero fosse stato progettato ‘a terra’ fin nei minimi particolari ( addirittura le lunette dei portali sono realizzate in un unico blocco di pietra lavorato sia all’interno che all’esterno ), e per questo, nonostante l’improvvisa e misteriosa scomparsa dell’Antelami, portato tranquillamente a termine. Quanto a Dietl - prosegue l’autrice - la sua lettura sottolinea il legame tra liturgia e scelta degli espisodi iconografici, oltre al ‘coinvolgimento’ dei cittadini nell’opera artistica, per il loro essere immortalati come borghesi o anche come semplici lavoratori delle campagne. Quindi Zanardi per il restauro, del quale vorrei sottolineare soprattutto l’importanza del recupero delle scritte dipinte, prima assolutamente invisibili..”

Di nuovo bello, verrebbe da dire, a prescindere da ogni giudizio sul ripristino...Come dimostra lo stesso contributo della Frugoni...

Per quanto mi riguarda parlerei di una nuova identificazione del soggetto di una delle grandi nicchie : e cioè non fuga ma ritorno dall’Egitto. Ed è un’interpretazione che consente di spiegare meglio( e ne è insieme suffragata ) il legame dell’iconografia complessiva con, ad esempio, la lunetta della Presentazione al Tempio.”

Quell’altra bellezza...La Frugoni la indaga da sempre. Docente di Storia Medievale all’Università di Roma, ha alle spalle un lungo elenco di pubblicazioni e studi rivolti proprio alla ricerca sull’immagine oltre che sui testi. Ed è proprio quest’onda e suggestione che l’ha condotta a Parma...

Da tempo mi occupavo dello studio del problema dei mesi, della loro rappresentazione intesa anche come rappresentazione del lavoro. Il Medio Evo - spiega la Frugoni - interpreta spesso il lavoro (e intendo anche quello agricolo) come mezzo per ritrovare la porta del Paradiso; un modo per cancellare la maledizione di Adamo. Un tema che mi affascinava, tanto piu’ se legato alle iconografie dei battisteri: dunque Pisa, ad esempio, e dunque Parma...dove è documento di estremo interesse non solo in questo senso... “

E cioè ?

Il riscatto che qui si esprime non è solo quello di Adamo - precisa disarmante la Frugoni - ma anche quello di Eva...”

...Parliamo  di una particolarmente importante presenza femminile, di opere superbe come la Regina di Saba, o di cos’altro ?

Parliamo del ruolo, anzi dell’importanza del ruolo che nella Parma comunale avevano le donne, e che qui è ben rappresentato. - riprende la Frugoni - Ed è questo davvero un ‘unicum’ nel programma di un battistero. Se la presenza femminile, anche a livello artistico, è una realtà documentata anche se cosi’ poco  rilevata dalla storiografia che conosciamo (che del resto è maschile), questa che definirei una autocoscienza del Comune, che vuole rappresentati e alla ribalta uomini e donne, è fatto davvero abbastanza raro.”

L’anima femminile dell’arte e della storia. Potrebbe essere questo il delicato e sorprendente controcanto alla quarta di copertina del volume, che recita ‘l’architettura, la scultura, i restauri, l’iconografia di uno dei più grandi capolavori dell’Europa romanica’. Capolavoro dei piu’ grandi, dice, non dei piu’ belli. Sempre per quel consueto timore, forse, di insufficienza e di banalità che sembra implicito nella parola. Che invece basta...

La bellezza è proprio una sua peculiarità. - afferma la Frugoni - Nell’architettura e nella scultura come nei colori. E’ il primo dei tanti sguardi possibili. Del resto era proprio un uso medievale quello di cercare di rallentare lo sguardo : scrivevano infatti ‘Ave Maria’ attorno alla testa di ogni,per quanto inconfondibile, Madonna.”

...Ma è solo il primo dei tanti sguardi possibili.

                                                                               

                                                                                                                     Rita Guidi

venerdì 2 aprile 2021

QUANDO L'ARTE TOCCA IL CIELO - OBIETTIVO SULLA DEPOSIZIONE DELL'ANTELAMI di Rita Guidi

 


In questo Venerdi Santo alziamo gli occhi sul capolavoro dell'Antelami che più di ogni altro celebra la Croce...

Ruba agli occhi un piacere un poco ingiusto la bellezza antica di questa “Deposizione”. Sofferenza di pietra che grida come poche altre la propria difficile e sacra necessità. 

 All’ombra del duomo di Parma, protetto da altri più gioiosi splendori, questo celebre (insuperabile?) capolavoro di Benedetto Antelami, vive, nel coro, un proprio solenne e riservato palcoscenico. Che straordinariamente (ed eccezionalmente) si ripete oggi anche su carta. 

 Scolpita dalla luce, penetrata dalle più insospettabili tecniche di ripresa e di stampa “La Deposizione” (Battei, 146 pagg. ) è infatti oggi anche un libro. Indagine sorprendente tra le schegge dello scalpello, che diventa lezione ed emozione artistica insieme. 

 E’ Franco Furoncoli a firmare (pazientare, reinventare) queste foto. E’ sua la scelta dell’insieme e poi del particolare. L’attesa dell’ombra, la magia improvvisa della luce. 

  “Il tempo del fotografo – scrive non a caso nella bella prefazione Eugenio Riccomini – parrebbe istantaneo: si schiaccia un pulsante e l’opera è già compiuta. Ma qui, in queste immagini le cose non stanno affatto così. S’intuisce piuttosto una lentezza curiosa del vedere; un continuo avvicinarsi dell’occhio ad ogni progredire dello scalpello, ad ogni suo impuntarsi nella materia dura, fino a vincerla, a renderla carne tenera, pieghevole tessuto o turgore di vegetazione. S’intuisce, anche, in special modo per alcune immagini, un lungo attendere l’ora più adatta e propizia, senz’aiuto d’altra luce che quella che c’è.”

 E la luce prima di tutto davvero c’è. Poi ci sono le parole (tutte riprese poi in tre lingue); straordinarie appunto queste di Eugenio Riccomini, come un saggio (scientifiche) quelle invece finali, studiose, necessarie.

 Al centro, come nella pietra, come nell’Antelami, il Vangelo secondo Giovanni. Qualche passo che dice di Cristo quello che accanto leggiamo senza letture (la mano che consola la guancia della madre… Il viso di Giuseppe d’Arimatea che gli abbraccia il costato…), posando lo sguardo sul dolore austero, toccante ed asciutto pensato nel 1178. 

 (Anche) questa pagine raccontano infatti che “La deposizione” antelamica non solo era probabilmente parte di  un pulpito quadrangolare, ma fu realizzata in quell’arco di tempo (fra il 1170 e il 1190) nel quale Benedetto Antelami fu anche impegnato nella costruzione del Duomo di Borgo San Donnino (e cioè Fidenza). Appartenente probabilmente a quel gruppo di costruttori provenienti dalla valle d’Intelvi (noti con il  nome di "magistri Antelami", appunto per la loro origine), lo scultore e architetto, dopo essersi formato in Francia, fra la Provenza e l’Ile de France, operò a lungo anche a Parma. Prima sistemando il coro della cattedrale, e poi (dal 1196) assumendo l’incarico di maestro responsabile della costruzione e della decorazione del Battistero, per il quale realizzò gli splendidi rilievi dei portali e le sculture interne che raffigurano i “mesi” e le stagioni.

 Emblema celebre e grande della sua mano. Ma certo anche da qui, da questa dolente lastra, passa la sua fama. Ora, con queste pagine, certo più copiosamente diffusa. 

 Fotografia fedele di una stessa emozione. Dolore bello. Arte necessaria.


Rita Guidi



  Per chi poi non si accontenta, per chi vuole sbirciare l’irrinunciabile bellezza, antelamica pure quella, del Battistero, c’è un altro libro, un manuale, una guida, pronta a dirci di quell’altra straordinaria opera che sono “i mesi” di questo misterioso e magico artista.

 Si chiama proprio “I mesi antelamici del Battistero di Parma” (sempre Battei) e l’ha scritto Chiara Frugoni (l’introduzione è di Gianfranco Fiaccadori). 

 Di nuovo belle immagini su carta patinata e sguardo attento, per un’altra bellissima conoscenza.