venerdì 25 febbraio 2011

ERITREA: IL NOSTRO IERI, UN PO' PIU' A SUD testo e foto di Paolo Pernigotti




L'Italia che non c'è più è lì.         
Impolverata dal tempo, sbiadita dal sole, ammaccata dalle avversità, per tutto ciò ancor più vera, come una vecchia pellicola neorealista dimenticata chissà dove. Il bianco e nero i due mondi che lì si sono incontrati, un secolo fa,  per non lasciarsi più.
L'Eritrea è un tempo ritrovato. Non è un altrove, è un allora. I cinema si chiamano Impero, Roma, Odeon; al Caffè Moderno, che ha novant'anni, i manifesti pubblicizzano Marsala e Digestivo Carciofo. Il Cynar deve ancora arrivare. Anche il logorio della vita moderna. Per strada gli anziani salutano chi ha la faccia da italiano con un “voi” di vecchia sudditanza, e con un sorriso di rinnovata giovinezza. Siamo, nonostante tutto, i loro bei tempi.
L'Asmara racconta ovunque di noi. L'architettura è una vetrina del bello che sapevamo fare, di pomposi sogni imperiali e di una piccola provincia trasferita lì con i suoi tic. I marciapiedi hanno ancora le piastrelle  a quadrettini, gli alberi una sottana di vernice bianca come catarifrangente, e c’è una vetrina che propone plaid Lanerossi per le fresche notti a 2400 della capitale: ultime occasioni. Passeggiare è un ritrovare e un ritrovarsi, per chi c'era, una lezione di storia viva per chi è venuto poi. C'è anche il traffico rado e silenzioso del nostro dopoguerra, in questo Paese che cerca un dopo alle sue guerre. Nelle strade circolano inconsapevoli cimeli d'auto storiche, Fiat 600 dai colori fuori serie sono banchi di scuola guida per i giovani che possono, autobus con lo snodo a fisarmonica portano le insegne dell'Azienda tranviaria milanese, gloriosi camion 692 rombano come nuovi: cinquant'anni di rattoppi non li hanno neppure stonati. E biciclette, tante biciclette. Mancano solo i ladri, nel vecchio film: la legge, da queste parti, non indossa il guanto di velluto.
Il viale alberato che attraversa la città racconta una Storia movimentata: è stato Corso Italia, Corso Mussolini, Corso Regina Elisabetta, Corso Hailé Selassié... Oggi si chiama Liberation Avenue, che va sempre. Confidenzialmente, Harnet. E' la via dello struscio, dei tavolini all'aperto, del grande Teatro Asmara dove qualcuno ricorda ancora Rascel e le gambe delle sue ballerine, è la via dei festosi convenevoli. La città ha quattrocentomila abitanti che si conoscono tutti, e il saluto non è un ciao, ma una mossa fra rugby americano e borseggio napoletano: ci si stringe la mano, seguono tre spallate a destra e sinistra, mentre l'altra mano sembra frugare nelle tasche dell'amico. Col tempo si impara.
Su Liberation Avenue sei cappuccini animano con lieta energia la vita della Cattedrale, Nostra Signora del Rosario, neogotico lombardo del ‘22, e una cittadella intorno fatta di scuole, collegio, tipografia e cinema. Cinema Dante. Poco lontana e poco frequentata, la vecchia sinagoga, molta più gente nella vicina moschea di Al Khulalfa, architettura italiana del '37. Chiese e moschee sono pari: 26 a 26. Ma Asmara è cristiana, la città islamica è Massaua. Cristiana copta. Una distesa di veli bianchi attende l'alba, ogni giorno, sul sagrato di Nda Mariam, la cattedrale ortodossa, altra firma italiana del 1913. C' è un ingresso per gli uomini, uno per le donne, e gli uomini devono entrare scalzi. Crocifisso o Maometto, il galateo è simile fra vicini di chiesa.
Brava gente, gli italiani, paterni coloni, ma ciascuno al posto suo. Così Liberation Avenue fissava i paletti: di qua il quartiere dei villini, notabili e parastato, di là il mondo degli indigeni. 
Ed è nel secondo che palpita il cuore della città, con il grande mercato coperto delle granaglie, della frutta e della verdura, dei teli stesi per terra con quello che passa l'orto, delle corriere sfondate che arrivano dalle campagne, sempre e solo posti in piedi, degli asinelli in mezzo alla strada, delle capre al traino zampa nella mano, degli scugnizzi dai riccioli di lana, delle grida, dei profumi, del tirare avanti giorno dopo giorno. Dei colori squillanti di quest’Africa alta come il Pordoi.
Medeber: tutto si crea e nulla si distrugge. E’ il vecchio Caravanserraglio, ai confini delle bancarelle: centinaia di minuscole officine strette l'una all'altra, cinquemila tute al lavoro, altrettanti martelli che battono all'unisono. Si ripara, si ricicla, s'inventa. Entra una stufa rotta, esce una pentola. O viceversa. Un viavai di gente che porta e prende, uno scampanio di ferri senza tregua, facce nere di sole e di morcia, lucide di sudore. La fucina di Vulcano. Ma un suo angolo è silenzioso e inaspettato. C'è una nebbiolina rossa nell'aria, tante porticine in fila lungo un muro di cinta, mucchi di sacchi ovunque. Lì nasce il Berberé, gloria nazionale, condimento d’ogni piatto, lì si macinano i peperoncioni di queste parti. Il piccante entra negli occhi forestieri, nel naso, nella gola, è subito un tossire e lacrimare. Le ragazze alle macine ridono belle, loro la respirano ogni giorno quell'aria irrespirabile, neppure se ne accorgono. Una dorme su un sacco e sembra sorridere, mentre scende su di lei una cipria rossa: chissà cosa si sogna in quella nuvola.
Asmara è a 2400, ma per godersela tutta in un colpo bisogna salire ancora un po'. Sul campanile della cattedrale, se il sagrestano ha voglia di dare la chiave e il visitatore di farsi 165 gradini, oppure sulla collina di Chrit.  C'è un bar a forma di fungo panoramico e la città ai propri piedi, da ogni parte. Poco lontana, un'altra collina di terra rossa come il Bereberé,  Haz Haz, il quartiere dei tucul. Ma non chiamateli così: incontreresti solo sguardi perplessi e divertiti. Lì li chiamano “agdo”, e ci vivono ancora. Hanno la forma di una capanna circolare in muratura, ancora qualche traccia di intonaco azzurro,  con il tetto un tempo di paglia e oggi di lamiera. E' facile essere invitati a entrare. Li abitavano gli ascari, erano il premio alla loro fedeltà di combattenti sotto il tricolore, oggi li abitano i pochi sopravvissuti o i loro figli. In pochi metri tondi ci stanno anche quattro o cinque ambienti. Poco più che loculi, ma chi ci abita ne è orgoglioso: quella capanna è una medaglia. Di più non hanno avuto.
L'altro versante di Liberation Avenue sono le colline residenziali dei conquistatori, il quartiere dei villini. Le bouganvillee in giardino erano le mostrine di chi ci abitava. Dove vivevano gli alti gradi oggi abitano le ambasciate, ed è ancora così: più bouganvillee, più il Paese conta. Villa Roma, rappresentanza italiana, è fra le più belle, ma è diritto acquisito.
Ad Asmara non solo gli anziani parlano la nostra lingua: seicento ragazzi frequentano le scuole italiane, sparse nella zona residenziale. Un'ottantina i loro insegnanti, che è facile incontrare alla Casa degli italiani, magari davanti a un’aragosta. Perché quelli all’estero sono gli unici insegnanti italiani ben pagati – lamentano i loro colleghi stanziali. Ma anche perché un pranzo medio, in Eritrea, non costa più di dieci Euro, al cambio ufficiale. Cinque a quello nero.
La Casa degli italiani è un'istituzione: nostalgico e orgoglioso circolo privato, ha un' emeroteca dove arrivano stagionati quotidiani italiani e il mensile “L'Alpino”, una saletta dove proiettare Montalbano o Verdone in dvd, qualche biliardo dal panno rosso, gli Azzurri in festa sulle pareti, e un ristorante aperto a tutti che è il più pregiato della città, con spaghetti ai gamberi da far passare qualsiasi nostalgia e i tavolini quadrettati all'ombra di due palme a lungo fusto. Le ha piantate Jesus Cuvrom, barba bianca e occhi grigi. E' lì da quando ha lasciato le sue capre, a diciott'anni. Oggi ne ha settantotto. E' il custode. Il piantone, precisa con aria militaresca. E' anche prete ortodosso: la Casa degli italiani è la sua parrocchia.
Ma c’è un’altra, più mesta casa degli italiani, alla periferia sud ovest: il grande camposanto di chi ha fatto quest’Africa a nostra somiglianza. Le tombe di famiglia non hanno bouganvillee, ma anche qui si capisce chi in Eritrea aveva trovato un po' d'America e chi no. Le croci dei soldati, invece, sono tutte uguali, le tiene in riga il loro generale. Per quasi tutti la data di morte è il '38, quella della nascita mai abbastanza lontana. A due passi un altro cimitero: Kagnew Station, una montagna di rottami arrugginiti in un grande campo, cataste di carri armati, autoblindo, cannoni, jeep, alte fino a sette, otto  metri e lunghe oltre un centinaio, l'una accanto all'altra. E’ orgoglioso bottino di guerra. Un monumento alla vittoria sugli Etiopi, alla liberazione, ai Caduti.
C’è un albero in Eritrea più famoso di una star: è un sicomoro, campeggia sui biglietti da cinque Nakfa, dieci centesimi di Euro, ed è un simbolo del Paese. Esiste realmente: a Segheneiti, una cinquantina di chilometri da Asmara, sulla strada per l’Etiopia costruita dagli italiani nel 1903. E’ millenario e sotto i suoi rami, che si aprono in un raggio di trentacinque metri, contorti come radici capovolte, possono starci 1500 persone. Altri ce ne sono nei pressi, quasi altrettanto spettacolari e solenni, ma non è solo la Valle dei sicomori a giustificare un’escursione  nella regione a sud della capitale. Proseguendo per un’altra settantina di chilometri, sempre in quota, si arriva infatti a Kohaito, dove reperti del primo millennio avanti Cristo raccontano la storia più antica dell’Eritrea: incisioni rupestri, una stele, una tomba, colonne dell’epoca axumita e preaxumita. Dove il picco più alto del Paese, l’Amba Soira, dai suoi tremila metri offre una vertiginosa veduta delle vallate sottostanti, un volo dello sguardo che si perde fra nebbie lontane.
Due strade partono invece da Asmara verso est, direzione Massaua: una lenta e spettacolare, tornanti d'alta quota, strapiombi e corone d'altri monti all'orizzonte, l'altra, più frequentata e veloce, che segue per un tratto la vecchia ferrovia e ha intorno colline terrazzate a perdita d'occhio. Si congiungono a una trentina di chilometri da Massaua, a Gahtelai, un villaggio che è stazione di posta per un tè, un caffé o una preghiera in moschea. Poche auto e pochi camion, ma molto traffico: capre, mucche, asinelli, dromedari. E pastori che sembrano cristi in croce, diritti e sottili, un lungo bastone appoggiato sulle spalle, dietro al collo, le braccia appese e penzoloni. Ogni tanto qualche impala taglia la strada, o un branco di scimmie dal sedere spelacchiato. Ogni tanto un villaggio lontano, case che sembrano mucchi di pietra, solo i panni stesi a distinguerlo dalla montagna. Ogni tanto una distesa di Dagusa in mezzo alla strada, il cereale con cui si fa la birra eritrea. Non si è rovesciato un carro: lo trebbiano così, facendoci passare sopra il traffico di passaggio.
Massaua è il fantasma di una principessa. E prima di lei si incontra la sua corte. Una corte dei miracoli, una periferia di catapecchie fatte di latta, con i tetti di latta, sotto un sole che arriva anche a 40. Eppure sorridono festose salutando la macchina che passa con le facce bianche, eppure ridono fra loro le ragazze più belle d'Africa, mentre lavano in un mastello i veli colorati come per una festa che non finisce mai. Non sono solo belle.
Poi un chilometro di ponte sul mare introduce a corte. I fantasmi sono bianchi, e a Massaua dona sullo sfondo azzurro. La principessa dorme, le strade della città vecchia sono vuote e silenziose, le case sembrano disabitate, come se la grazia ferita della città non potesse più reggere il peso e i rumori della vita. Ma i terremoti e le bombe che l'hanno martoriata hanno perso la battaglia: la caducità ha reso più preziosi i suoi tesori. Massaua ha sangue antico, ottomano e veneziano. E' arabo il suo labirinto di vicoli, angoli sapienti dove spremere il vento di mare, sono arabi gli stretti portici, i balconcini di legno intarsiato. Su altre facciate, invece, si aprono finestre rubate al Canal grande, ricami Liberty impreziosiscono gli occhi vuoti della scheletrita Banca d'Italia. La bella addormentata si sveglia di notte. L'hotel Torino accende la sua insegna tricolore e riempie la terrazza all'ultimo piano di musica e di balli, saracinesche nascoste svelano poveri bar e inondano la strada di luci rosse e soffuse, come la polvere del Berberé. Anche qui, come al Caravanserraglio, ci sono ragazze dentro. E qualche marinaio, qualche turista solo. Case in brandelli mettono fuori tavoli, tovaglie e profumi di mare a fuoco lento. I bambini giocano con palloni di pezza nelle strade senz'auto. Solo qualche Ape-taxi giallo con pezzi di cancello per portiera. Anche quello Liberty italiano.
Davanti a Massaua ci sono duecento isole coralline: le Dahlak, un paradiso che attende. C’è un caicco da crociera, uno solo, per chi riesce a prenotarlo, c’è qualche sambuco per chi è disposto a dormire in tenda sulle spiagge, e c’è un albergo a metà, nient’altro. L’albergo sta lentamente crescendo sull’isola di Dissei, una delle tre o quattro abitate: centoventi persone, sette dromedari, cinque asinelli, capre non pervenuto. Il resto è un mondo vergine di trasparenze, coralli, spiagge bianche, bassopiani di acacie. E’il futuro turistico del Mar Rosso. E’ un presente  da cogliere in fretta.


  






martedì 22 febbraio 2011

CHIOCCIOLE CON LE RUOTE - il grande nord (in camper) di Cesare Pastarini



La ricetta è facile, gli ingredienti si trovano senza problemi.
 Due camper a noleggio e due equipaggi formati rispettivamente da due genitori con una figlia di 5 anni e altri due con bimbe di 3 e 6 anni. Quattro biciclette con seggiolini, perché nelle città si gira meglio su due ruote. In una pietanza come questa, sono importanti anche le dosi, per cui aggiungete un numero: 9200. Ritroveremo questa cifra più avanti. Ah: cercate anche un po’ di spirito, perché è qui che dovrete immergere gli ingredienti. Noi lo spirito lo abbiamo trovato e siamo partiti con l’ambizione di attraversare l’Europa, anche nel tentativo di allontanare i pregiudizi sul rapporto camper-bambini. Chiocciole con le ruote e colonna sonora di Jovanotti, in due giorni si arriva in Danimarca. L’ambiente confortevole della «casa» mette a proprio agio Carlotta, Margherita e Maria Vittoria, per le quali avevamo preparato il viaggio con cura, con varie attività di svago, giochi, bambole, pennarelli e un po’ di compiti (rimasti da fare). Ma si trovano bene anche gli adulti, soprattutto quel papà e quella mamma non avvezzi a questo genere di vacanza. I tabù verso il camper svaniscono al Brennero, guidare è perfino rilassante e si impara presto a conoscere il mezzo.La città della Sirenetta Il simbolo di Copenaghen vale uno sguardo, perché protagonista di una fiaba di Andersen. E’ posizionata all’ingresso del porto di una città che riesce a regalare belle emozioni con l’architettura e con la complicità di un museo d’arte moderna, il Louisiana. La sua location è mozzafiato: grande giardino sul mare, sculture di Moore e Calder posizionate sull’erba tagliata all’inglese. E poi Cézanne, Picasso, Giacometti. I bambini sono i primi benvenuti. Oltre alla libera corsa sul prato, i più piccoli possono accostarsi all’arte grazie a divertenti laboratori artigianali.
Il salto verso Oslo Si può fare in comoda crociera. Divertimento sulla nave, poca gioia in città. La capitale della Norvegia non offre granché per i bambini. Però c’è il Munch Museet: «Young woman on the shore», «Red and White», «Madonna» sono dipinti che rapiscono al pari della tela più famosa: «Il grido». Nei dintorni di Oslo c’è il Viking Ship Museum, con esposte alcune navi vichinghe databili intorno all’anno 900. Il viaggio attraverso la Norvegia riparte alla volta di Bergen. Campeggi per riposare e per il rifornimento di acqua dei camper si trovano ovunque, tutti da favola. Soprattutto sui fiordi, rami di mare che penetrano tra le montagne e rendono frastagliato tutto il Paese. L’equazione 1 fiordo > 1000 fiordi non è lontana dalla verità: sono molto simili tra loro. Spesso occorre traghettare i mezzi per proseguire il viaggio. Proprio sui traghetti, però, si può avere uno degli incontri più simpatici, quello coi delfini.A Bergen, considerata la porta dei fiordi, incappiamo in una regata storica. La città è troppo affollata per essere visitata con calma. Resta comunque una borgo marinaro pieno di giovani, soprattutto grazie alla sua università. Al mercato del pesce si possono gustare fritto misto e squisiti gamberetti venduti da studenti stranieri che si pagano la permanenza. Poco a nord di Bergen, c’è Jostedalsbreen, il più grande ghiacciaio d’Europa su terra ferma. Una breve passeggiata nel bosco, non sono necessarie le scarpe da trekking, e si arriva al braccio Briksdalbreen. Occorre ritirare fuori lo spirito per salire in gommone e, con l'aiuto di una guida, pagaiare in mezzo al lago sottostante il ghiacciaio. L’emozione non resta solo ai bambini, anche loro muniti di remo.Le isole Lofoten La rara popolazione vive di pesca. Non a caso nel paese di A (si chiama così) c’è il Museo dello Stoccafisso. Centinaia di merluzzi appesi sui graticci. Accanto a loro, un corvo sgozzato, monito per uccelli affamati che sorvolano la mensa. Sabbia finissima, acqua più limpida del ghiaccio, una pace rotta solo dal verso dei gabbiani. I fondali dell’arcipelago meritano un'immersione. La temperatura dell’acqua è di 8°, in inverno arriva a 2°. A -30 mt la parete è abitata da colorati anemoni, stelle, ricci e granchi. Abituati al mar Mediterraneo, non ci si aspetta tanta vita sottomarina. Invece, navigando per circa due ore dalla costa, se si ha fortuna e pazienza, si possono vedere le orche.Lasciamo le Lofoten. Una località particolarmente piaciuta alle bimbe è Alta, sito a cielo aperto di scritture preistoriche risalenti a 6000 anni fa e raffiguranti nitide scene di caccia e pescatori in barca.Capo Nord ormai è lì. Un’aquila è appostata su di un sasso, quasi a voler controllare i movimenti degli estranei a motore. Poi ci sorvola silenziosa. Le renne insistono a interrompere il nostro cammino. Una volpe fa l’occhiolino sul ciglio della strada. L’alce continua a sgranocchiare una corteccia. Intanto i due camper vanno, e vanno. Arrivano alla meta dopo due settimane.Nordkapp E’ il punto più a nord dell’Europa continentale. All’imbrunire il sole e la luna sono esattamente alla stessa altezza, uno di fronte all’altra. Entrambi pieni. Entrambi non cedono il passo all’altro. Il freddo gelido si fa sentire, l’emozione di essere in cima al mondo è troppo forte per restare chiusi nelle nostre chiocciole. In realtà le bambine stanno talmente bene che non vorrebbero mai scendere. Passeggiata nel grande piazzale, foto di rito davanti al Globo e cena a lume di candela. Nel camper, ovviamente. Il sole tenta di tramontare oltre la mezzanotte, ma alle tre è già lì che sorge. Un «amico» ci ricorda che siamo solo a metà del viaggio.Allora via, si torna giù Verso il parallelo del Circolo polare, a Rovaniemi, in Finlandia, il paese dove le bambine incontrano il «vero» Santa Claus, nel suo ufficio pieno di letterine. L’emozione è palpabile. Figuratevi: «Piacere, io sono Babbo Natale. Voi come vi chiamate?».
Poi ancora più giù, a Stoccolma, alla casa-gioco di Pippi Calzelunghe e dar sfogo alla frenesia, giustamente impossibile da contenere. La città, bellissima, meriterebbe almeno tre giorni di visita. 
Nota per i camperisti: il campeggio vicino al centro di Stoccolma è molto piccolo, conviene prenotarlo per non dover alloggiare altrove. Con l’entusiasmo per aver compiuto la nostra piccola impresa, dopo tre settimane siamo di nuovo in Germania, poi in Svizzera, poi a Parma. 17 pieni di carburante, 9200 chilometri. I conti tornano e con loro tornano anche le due chiocciole, non lumache.

lunedì 21 febbraio 2011

SIGNORI, SI PARTE


Benvenuti a bordo.
Chi ama viaggiare conosce perfettamente questa frase. Gli istanti prima del decollo. 
L'inizio di un volo verso ciò che è sempre nuovo: nel tempo e nello spazio.

Benvenuti a bordo. Questo blog nasce per condividere una preziosa idea di altrove.
Non un taccuino di viaggio: bello e importante, certo, come una fotografia, un ricordo, un documento.
Però no, non questo. 
Il nostro blog trotter è un biglietto per l'emozione; in rotta tra quegli istanti e quei luoghi che ci hanno scavato dentro un fuoco indelebile, come una piccola rivelazione.
Sarebbe banale ricordare l'eterna differenza tra turisti e viaggiatori. Ma sarebbe altrettanto banale non ammettere che se ogni viaggio è una storia, solo alcuni - pochissimi - ci attraversano dentro, stabiliscono un prima e un dopo, si appropriano di qualcosa di noi così come noi ci appropriamo di quei luoghi e di quegli istanti.

Siete pronti? Vi aspettiamo. Autori di reportage da orizzonti immobili o lontanissimi. Da un "posto d'avanguardia, all'estremo limite del nulla" ; da un tuffo nella poesia o nell'oceano inviolato; dai sentieri della storia, della bellezza, della natura  o da quelli dell'anima.

Qui il viaggio è emozione. Le valigie lasciatele giù.