mercoledì 28 dicembre 2011

NATALE NEL CUORE D'EUROPA di Rita Guidi - foto di Niccolo' Zanichelli



 E’ la Cenerentola delle capitali europee.
 Bruxelles soffre lo sfarzo delle sorelle di Francia e Inghilterra, relegata alle fatiche e all’immagine (faticosa, attualissima, polverosa) di crogiuolo d’Europa tutta euro e Parlamento. Eppure non serve la bacchetta magica per svelarne la sontuosa, (golosa) e timida bellezza, e farne meta di una vacanza (natalizia?) davvero da fiaba. E’ sufficiente un ombrello. Per vincere il grigio cenere di un cielo (troppo) spesso capriccioso. O per difendersi dal vento che lucida il buio che scende così presto; cornice puntuale allo spettacolo di luci che regalano le Feste di fine anno.
 E allora non perdetevi l’emozione di iniziare da lì, dal cuore splendido della città, dalla Grand Place. Orizzonte gotico e spettacolare, che si accende di suggestioni nella scelta del gioco effimero di addobbi di luce e suoni. Un maestoso albero al centro, un Presepe “vero” (con tanto di pecorelle) a lato, il Natale disegna cristalli di neve sulle facciate antiche (le Case delle Corporazioni, l’Hotel de Ville), appoggia addobbi di luce su brani classici e sulle guglie candide di S.Michele; sceglie giochi di laser colorati per vincere il buio, esaltare il profilo svettante dei palazzi.
 Infreddoliti? Abbassate il naso e accettate il vin brulè che offrono tra i banchetti dei mercatini annidati appena dietro la piazza, nel quartiere (indipendente) dell’Ilot Sacrè. O seguite il profumo di waffle e di quel mondo di (ineguagliabile) cioccolata fino alla foto di rito davanti al Mannequin Pis: la scultura bronzea del piccolo Julienne, che la leggenda vuole abbia salvato la città dall’esplosione di una bomba spegnendo la miccia con..la pipi’…
 Shopping d’autore, ma anche passione per i caffè letterari? Sempre dietro la Grand Place, ma in direzione opposta, infilatevi nelle Galerie St.Hubert, 
che uniscono al piacere estetico dello stile decò (l’eleganza, da questa parti, si firma Victor Horta), ai tavolini “storici” della “Taverne du Passage” che hanno accolto Baudelaire, Hugo, Simenon (in mostra fino a febbraio, qui, al Musee des Lettre set des manoscriptes, tutto il mondo del papà di Maigret) . Avete pargoli al seguito? Proseguite per il Museo del Fumetto: altra splendida realizzazione di Horta, che accoglie non-solo-Hergè, da Tin Tin a Zagor, ai Puffi e compagnia bella.

  Direzione grandi firme, di nuovo? Avenue Louise: una promenade di bellezza dal sapore nostrano (Armani, Versace…); e se anche la fame è inguaribilmente italiana, addentratevi solo un poco, (in Rue de Bailli 30) a Le Toscane, dove il cuoco siciliano (a dispetto del nome) vi farà sentire davvero a casa. 
Se poi è proprio la vostra città che vi manca, non cercatela con lo sguardo
 dalla “molecola” più alta dell’Atomium; piuttosto nel nuovissimo “Parlamentarium”: autentico gioiello iper-tecnologico dedicato a un percorso storico-culturale nell’Unione Europea. 
Dopo una visita all’emiciclo del “vero” Parlamento Europeo (ingresso anche senza prenotazione alle 10 e alle 15), il tour virtuale (e gratuito) al Parlamentarium, nella grande e modernissima struttura appena di fronte, è davvero da non perdere. Accompagnati da un’audio/video-guida interattiva attraverso sale suggestive con pareti a tutto schermo, pannelli e tavoli touch-screen, potrete davvero sentirvi immersi nella storia d’Europa; sotto un soffitto di luci che ne tracciano i confini, potrete guidare un lettore mobile multimediale ed entrare nelle più importanti città (sì, c'è da scommetterci che c'è anche la vostra); potrete partecipare, con il gioco interattivo di quesiti o di proposte all’Europa di domani.
 Una traccia attiva, subito rilanciata dai pannelli luminosi che vi salutano all’uscita come veri cittadini del mondo.  E se fuori il cielo è sempre buio, di nuovo aprite l’ombrello: quello dei tanti quadri di Magritte, nel surreale museo a lui dedicato. E proprio accanto, al Museo di Belle Arti, non perdetevi il Cinquecento onirico di Bosch, e Bruegel. Figli di questo cielo, cinerino e magico. Di fronte, del resto, c’è il Palazzo Reale. Dicono che non scompare, no, nemmeno a mezzanotte.



P.S.
Bruxelles è ampiamente servita da voli low-cost. Tra i più abbordabili (e puntuali) Ryan Air, che ha uno scalo dedicato a Charleroy (con navetta – 45 minuti – per la citta’).
 Ottime anche le possibilità di alloggio a budget ridotto. Per esempio il Beau Site, in rue De La Longue Haie, davvero a due passi da Avenue Louise e dunque dal centro come anche da metrò, tram e bus per tutte le destinazioni.
 Spuntini speciali e deliziosi nella catena Le Pain Quotidien (9 indirizzi solo in città) che offre ambiente chic e prodotti bio a una decina di euro (bevande, soprattutto acqua!, a parte). Per una cena con i fiocchi dipende dalle zone e dalle tasche. Ma c’è sempre Le Toscane (rue du Baillie 30) o una pizzeria dove rimediare un pasto “italiano” e abbondante.

lunedì 20 giugno 2011

LE 17 MIGLIA DI UN'ALTRA CALIFORNIA di Rita Guidi


Se cercate un’idea di grigio in più rispetto a quelle che potreste pensare, andate in California. Sì. Il più colorato, fluo e soleggiante lembo d’America non risparmia nemmeno su questo. Sui grigi. Intensi e luminosi da infastidire lo sguardo, rarefatti e magici da ispirare tanti artisti e scrittori, si raccolgono soprattutto qui, tra la sabbia, l’oceano e il cielo, e soprattutto (ma forse sarebbe più esatto dire solamente), in quello stralcio di costa ad appena un’ora da San Francisco, che ruba l’unico rigore che il Pacifico di queste parti sa concedere.
Temperature ad un passo dal freddo, e dunque una brezza asciutta che anche nel sole pieno difficilmente lascia sudare ; piogge pressoché assenti in quattro stagioni che mitemente si confondono, le prime ore del giorno e della sera illuminano il rigoglio di verde e di fiori della baia di Monterey, Carmel, Big Sur (questi, appunto, i luoghi) con un velo di nebbia. Preziosissima e rugiadosa, è  infatti lei che bagna di sangrilà i campi da golf e i cipressi, attutisce i versi degli scoiattoli e delle foche, impertinenti e numerose abitanti degli scogli.
Per vedere anche loro, rotolanti e allegre in questo oceano tutto da guardare, non avete che da percorre quelle diciassette miglia di costa così suggestive che gli americani di qui hanno deciso di farne, se “benestanti”, il luogo di ville silenziose ed incantate, o comunque (che strano eh ?) un affare. La “17 miles drive”, questo il suo nome, infatti si paga : 7 dollari e 25 cent, per l’esattezza. Spesi, però, assolutamente bene.

 L’importante è mettere in conto anche un mezzo pomeriggio e nessuna fretta, perché è davvero un piccolo viaggio.
Pensato in ventuno tappe, in ognuna un luogo rotondo per sostare su un orizzonte diverso, è infatti un percorso davvero lontano da tutto, ma non dal pensiero ; nel tempo sospeso e grigio (non scegliete, se possibile, il sole del mezzogiorno) che prima di qualsiasi uomo l’oceano ha da sempre saputo regalare.
Tra le tante istantanee, è allora il caso di ricordare almeno la sabbia finissima e candida di “Spanish Bay” ; la rocciosa  “Point Joe”, l’attracco maledetto che oltre la nebbia (sempre la nebbia) ingannava fatalmente i marinai che pensavano fosse l’ingresso sicuro della baia di Monterey ; o “Bird rock”, un grumo di scogli sul quale più dei gabbiani e dei cormorani che anneriscono le pietre, divertono le foche e i leoni marini, densi, vocianti e pigri sull’orlo dell’acqua, mentre gli scoiattoli sempre a caccia di quanto avete da offrire vi circondano le caviglie. E ancora “Ghost Tree”, l’incantato e bianco cipresso fantasma (l’abbiamo detto che questa atmosfera rarefatta e salmastra ha nutrito gli occhi e le pagine di Miller, Stevenson, Steinbeck, che era di queste parti...) ; e soprattutto “The lone cypress” il cipresso (ma noi lo chiameremmo pino marittimo), che sembra crescere il suo profilo verde e contorto direttamente sulla roccia. E forse è proprio lui il più famoso e il più fotografato. Simbolo per di più di quel campo da golf che appartiene all’attrezzatissimo complesso del “Pebble beach”, che, manco a dirlo, è tra i più belli della California. Perché il silenzio dell’oceano non ci faccia dimenticare che qui è pur sempre America. E dunque, la strada separa dall’acqua le prestigiosissime “buche”, e le appartatissime ville ; e sulla “17 miles” stessa, c’è sempre qualcuno che corre, pedala, fa jogging.
L’uscita ? Vi riconduce a Carmel, celeberrimo centro preferito da tanti vip e del quale fu “major” Clint Eastwood ; o, dirigendo verso nord, a Monterey, che dà nome alla baia e alla penisola. Cittadina di legno e di oceano, anche questa, suggestiva benché turistica nelle attrezzature  antiche quanto può esserlo l’America, di Cannery Row, la strada del porto ricordata esattamente dal titolo di un racconto di Steinbeck ; o nella spettacolarità dell’acquario, la più grande riserva marina del Paese, dove, in un gesto di gusto molto USA, funziona anche un ristorante interno, sormontato da balenotteri in carta pesta, con menù “appropriato”.
Vetrate immense per un oceano di colori. Il regno nascosto sotto le diciassette miglia di grigio incantato di questa costa.

martedì 24 maggio 2011

GIAMAICA: IL VERDE ORIZZONTE DI BOB MARLEY (2) testo e foto di Paolo Pernigotti

Non c’è solo “Via col vento”, la Terra dei resort offre altri film: da “Tarzan” a “Lo squalo”, da “Indiana Jones” a “Sandokan”. Qui la scoperta della natura diventa gioco, avventura; le spiagge e la foresta sono un grande parco a temi, pieno di americani che non se ne vorrebbero più andare. Ocho Rios è base ideale per queste escursioni nei paesaggi della Giamaica e della fantasia. Si può volare sulla foresta di Cranbrook appesi a cavi d’acciaio: da una Palma Gigante a una maestosa Ceiba a una Sequoia,  imbragati in moschettoni da ferrata e legati a una carrucola per guardare la jungla dall’alto in basso. Si chiama “Canopy Tour”.  Oppure giù per il “White River”, sprofondati  in un canottino grande come un salvagente, fra romantiche lagune e innocue rapide, sotto volte di felci e bambù. In mare, invece, si va a cavallo: a nuotare a sei zampe dove neppure gli zoccoli toccano più. O in giro su jeep tigrate da safari. O in mountain bike, in dune buggy, in canoa, persino su carriolini trainati dai cani. Per  queste escursioni si parte nei pressi della spiaggia di Priory, dove ha il quartier generale la “Chukka Caribbean Adventures”, premiato divertimentificio dell’isola.
Anche le “Dunn’s River Falls” sono diventate un gioco: per qualcuno sono le più belle cascate del mondo, ma qui ci si viene soprattutto per scalarle. Costume da bagno e mano nella mano, in cordata fra le rocce levigate e scivolose, si parte dalla sfavillante spiaggia dove il Dunn’s River si butta in mare e ci si inerpica controcorrente, nell’ombra della foresta tropicale, per un dislivello di circa duecento metri. Fra scivoloni e bagni, risate e ammaccature, ci si dimentica solo di guardare il paradiso intorno.
Più tranquilla la visita di “Prospect Plantation”, a cinque chilometri dalla città, in cima a una collina: su un “jitney”, una specie di vagone trainato da un trattore, attraverso colture di banane, caffè, manioca, ananas, palme da cocco e caffè, fino all’antica villa padronale, sulla sommità che domina la baia. Più Disneyland, invece, “Dolphin Cove”, sempre in zona: quinte di cartone per un villaggio di pirati tutto boutique, ristoranti e ombrelloni. Sono veri i delfini, ma sono falsi i loro baci ai turisti: se non c’è lo zuccherino non se ne parla. E sono veri gli squali, che passeggiano in piscina accanto ai loro istruttori, ma hanno l’aria imbambolata di pescicagnolini già satolli e innocui.
 La strada continua la sua corsa – si fa per dire – verso Port Antonio, all’estremo orientale dell’isola. Si alternano tratti asfaltati e Camel Trophy. Ottanta chilometri in tutto, non meno di tre ore. La strada è in rifacimento, una ventina di grandi cantieri sono aperti, un esercito di ruspe e caterpillar è schierato. I lavori fervono, ma lentamente. Tutto in Giamaica è sloly: fa caldo. Solo al volante i giamaicani si scatenano. Qui si guida a sinistra, ma non preoccupatevi se intendete noleggiare un macchina: vanno tutti al centro. Ai lati ci sono buche profonde e le sospensioni sono sacre, ogni incrociarsi di auto è una sfida all’ultima sterzata. Spesso va bene.
Con la strada che c’è, il turismo non ha ancora invaso Port Antonio, e alle banchine approdano più bananiere che alberghi galleggianti della Royal Caribbean. Ci si può mescolare alla gente senza essere assaliti dai venditori di souvenir, si può passeggiare anche di notte senza essere assaliti. I dintorni di Port Antonio sono la villeggiatura dei giamaicani bene: grandi ville nel verde della foresta tropicale, che aprono i battenti nel fine settimana, e alberghi di charme che fanno tanto colonia di sua maestà britannica. Il cuore di Port Antonio è la piazza dell’orologio: su un lato si aprono le baracchette del Musgrave market, dove il parrucchiere e il sarto lavorano in strada, sull’altro alcuni edifici rossi e imponenti, come il Village of St George, stile olandese, e il georgiano tribunale sormontato da una solenne cupola. Poco lontano, in Harbour Street, l’anglicana Christ Church: stile neoromanico, anche qui mattoni rossi, oche e galline sul sagrato. Port Antonio ha le sue memorie più sfavillanti su un isolotto che chiude la baia di West Harbour: Navy Island. Negli anni ’50 l’acquistò Errol Flynn e divenne un’appendice della leggendaria Hollywood d’allora: feste e festini, lusso e lussuria. Se ne favoleggia ancora, ma oggi ci vanno i vacanzieri della domenica con il latte di cocco nel thermos.
Fantasma di vecchie glorie – nel suo biancore e nella sua grandiosità – anche il “Trident Castle”, tre chilometri verso est. Lo volle così, alla fine degli Anni ’70, una baronessa dal nome impegnativo: Elisabeth Siglindy Stephan von Stephanie Tyssen. Tutto torri e balconcini, arroccato su un promontorio, parco a gradoni e scalinate che scendono in mare, è disabitato da tempo. Basta scostare il grande cancello in ferro per entrare, aggirarsi fra i vialetti affacciarsi dalle terrazze sul mare. Non c’è nessuno. Però, chissà perché, si cammina in punta di piedi. Anche il mare non fa rumore.
Un film è stato girato davvero da queste parti: “Laguna blu”. A dieci minuti dal castello, il ricordo di Brooke Shields e lunghe zattere di bambù aspettano i turisti. Sotto ci sono 52 metri, sopra tutti colori del blu, intorno la foresta che si piega sull’acqua.  
Ma si può andare in Giamaica senza andare a Kingston? Sì. Sono centocinquanta chilometri dalla costa sud e la capitale non merita il viaggio. Ma il viaggio merita. Attraversa la parte più interna dell’isola e ne svela il volto più antico e autentico. Curve su curve e traffico giamaicano, ma un mondo di contadini e pescatori che non ruba neppure la luce perché non sa che farsene. La foresta tropicale è padrona incontrastata, la strada è spesso un’ombrosa galleria dal tetto di felci e bambù.
Verso Kingston s’incontra l’antica capitale della Giamaica: Spanish Town. Con i suoi 120.000 abitanti è la seconda città dell’isola e si coglie il suo trascorso splendore nelle tante case patrizie in stile georgiano, cariche di rughe e nobiltà. Ha una bella e deserta piazza spagnoleggiante del 1500, giardino con monumento al centro e solenni edifici in mattoni rossi sui quattro lati: un angolo d’Europa su un pezzo d’Africa alla deriva in America.
A Kingston mettete la sicura agli sportelli dell’auto e l’occhio sul navigatore: finire fra i ghetti della zona ovest o in Down Town dopo il calar del sole può essere un’esperienza fin troppo pittoresca. La zona degli alberghi – New Kingston - è invece tranquilla anche di notte ed è vicina al “Parco dell’Emancipazione”, una delle poche attrattive della capitale per il suo verde ordinato, le sue fontane luminose e il celebre monumento “Redemption Song”, della scultrice Laura Facey Cooper, costato oltre quattro milioni di dollari e giudicato da molti troppo “hard”. Raffigura un uomo e una donna di colore, nudi, uno di fronte all’altra. Sono due statue imponenti. Ogni dettaglio è piuttosto imponente.
Devon House è il più elegante edificio della capitale, il miglior ristorante dell’isola e la più prelibata gelateria: tre buoni motivi per una visita. Risale al 1880, ha una facciata ocra e bianco in corso di restauro e si affaccia su un quieto giardino. Ospita il “Norma’s on the terrace”, cucina rigorosamente giamaicana e terrazza romantica. La gelateria si apre sul giardino: a portata di panchine per gustarsi le specialità al rum e allo zenzero.
A Kingston c’è il museo più importante e famoso dell’isola. In una sala un ritaglio di giornale italiano: “Per un bruno così si può anche delirare” – scriveva Natalia Aspesi il 28 giugno del 1980. E si riferiva a Bob Marley in concerto a Milano. Il museo che lo celebra è puro feticismo: c’è tutto ciò che gli apparteneva e ha fatto parte della sua vita, i dischi di platino e le foto da bambino, i buchi sul muro di quando gli spararono e il letto su cui dormiva. Le visite sono guidate ed è vietato fumare. Sigarette.

mercoledì 11 maggio 2011

GIAMAICA: IL VERDE ORIZZONTE DI BOB MARLEY testo e foto di Paolo Pernigotti


Sì, la Giamaica è verde. Ma non fidatevi: la dipingono. 
A Montego Bay, quando non piove da tempo esce una vecchia autobotte e spruzza di verde le aiuole rinsecchite, le siepi, i pratini. D’altronde qui l’erba è importante: è Bob Marley l’eroe nazionale. Il mare invece è senza coloranti: è tutto suo quel bluverdeazzurrobianco con un’ acqua così limpida e placida che viene da nuotare piano per non scomporla.
La Giamaica confina a Nord con un paese felice: la Terra dei Resort, giorni smaglianti e sere a lume di candela. Profonda quanto basta per abitarvi un sogno, lunga quanto le sue spiagge più belle. Nella specchiata hall di Half Moon – il resort più prestigioso dell’isola – c’è Bush padre incorniciato nella galleria di chi c’è stato. E qui dev’essersi sentito a casa. Casa Bianca. Perché in questi firmamenti di stelle gran lusso vince il bianco. Non solo nella pelle dei clienti e nel lampo abbacinante delle spiagge, ma nelle pompose scenografie da “Via col vento” on the beach: colonne, timpani e verande, marmi e stucchi smaltati. Neri – ma in giacca bianca – solo i camerieri, pronti al sorriso, al drink, al “Sir”. Fra mare, palme e green, una quiete che, anche quella, sembra un lungo ciak, una storia felice. Peccato che sia un film.
La verità è oltre il cancello e le guardie. Oltre confine. Con i suoi colori – forse è proprio il bianco che langue - e i suoi dolori, i suoi rumori, umori, amori. Perché in Giamaica non ci sono antiche vestigia, musei, monumenti. Non c’è niente di particolare da vedere. C’è tutto: la vita della sua gente, la terra, il mare.

Il charter della Livingston Milano-Montego si mette in coda ai banchi dell’Immigrazione con rosee tardone del Michigan e dell’Ohio. Questa è la Svezia del maschio italiano anni ’50: sesso libero, ottimo e abbondante. E i giamaicani si pubblicizzano senza subliminali: le statuette di legno che fanno bella mostra di loro in ogni bancarella sono così autoreferenziali che non passano come bagaglio a mano. Per la Security sono armi improprie. E’ l’ultima spiaggia, le signore vogliono bruciarsi. Non solo ai raggi del Tropico.
I giamaicani hanno facce da galera, ma non è colpa loro: c’è sangue pirata nelle vene e rabbia di antichi schiavi sotto la pelle. Le giamaicane hanno facce che ci stanno, ma è colpa nostra che non sappiamo leggere altro nelle loro labbra spugnose, negli sguardi selvatici, nelle curve esplosive. Montego ne è convulso palcoscenico. E taxi strombettanti in processione, insegne variopinte e roboanti, McDonald e Pizza Hut: la città è un villaggio che si sente metropoli. Capitale del Nord, privilegiato approdo delle crociere dalla Florida e primo porto commerciale della Giamaica, più di ogni altro luogo svela l’anima segreta, più autentica dell’isola.
La Giamaica confina verso nord con la Terra dei resort, verso sera con l’Africa. Gli uffici chiudono, il sole si smorza e la vita scende in strada. Reggae, rap, halldance, i negozi squadernano sui marciapiedi casse da discoteca e incrociano i loro decibel con le autoradio a squarciagola di passaggio, con lo strombettare dei taxi in fila indiana. E’ un’onda da cui farsi portare, una fiera di passi, di sguardi e di parole. Teli accampati ovunque vendono qualsiasi cosa e le grida degli ambulanti cercano di sopraffare Bob Marley; disteso sui gradini qualcuno ha nient’altro che la sua storia biascicata da vendere e tende senza convinzione la mano rinsecchita; nugoli di scolarette in uniforme da ragazzine  ricche tornano verso le loro baracche di periferia; vecchie streghe s’illuminano in sorrisi sdentati per piazzare un mango o una papaia; pin up e machi  hanno passi e sogni da disco music a stelle e strisce; rasta dai capelli di corda si accarezzano il pizzo caprino e inseguono più fumosi sogni.
Nei resort è l’ora del dinner e delle orchestrine soffuse. In strada è l’ora dei jerk: un bidone da benzina tagliato per il lungo, riempito a metà di carbone e rami di Pimento, pianta aromatica e condimento nazionale. Nel rudimentale barbecue si arrostisce pesce, manzo, maiale. Quel che c’è. E da una specie di tubo di scappamento escono fumo e profumo che riempiono le strade e adescano i clienti. Per dessert, canna da zucchero scorticata al momento, da succhiare fino al midollo. La sete poi si toglie con un colpo di machete a una noce di cocco o con una Red Stripe a garganello, la biondissima birra del posto. Le lampadine penzolanti dei jerk saranno le ultime a spegnersi, nel cuore della notte: l’appetito ha le sue regole, la fame non ha orario.
Così sei giorni su sette, ma la domenica è il giorno del Signore. E delle signore per un giorno. Montego, un girone di dannati che si riempie di alleluia. Negozi chiusi, poche bancarelle, strade vuote, neppure i soliti taxi in circolazione. Ovunque chiese, grandi come teatri o piccole come un garage: protestanti, cattolici, evangelici, pentecostali, avventisti, animisti. Cristo in tutti i modi. E chi non è in casa o in chiesa è solo chi è senza casa o senza chiesa: per le strade del centro, sotto i portici di Marcket Street, nelle aiuole di Sam Scarpe Square, solo i più disperati. Corpi distesi, passi stentati, mani tese, parole farfugliate. Montego fa paura. Ma, d’improvviso,colori pastello riempiono la città, e profili da Mary Poppins. Sciamano all’uscita da messa su traballanti scarpette di vernice, la Bibbia sotto il braccio, cappellini con la veletta, tailleur squadrati. All’angolo di una strada improvvisano un pulpito di anatemi e fiamme eterne, tra alleluia, battimani e tamburelli. Altre distribuiscono razioni di pollo e riso dal camioncino della parrocchia. Qualcuna allunga una moneta. Altre il passo verso casa, che di monete c’è poco da frugare. Hanno al fianco ossuti cavalieri, rigidi nei loro abiti scuri e lisi. I più giovani si concedono damascate sciccherie da piano bar. La città è due mondi. Ma il paradiso e l’inferno si sfiorano con rispetto: sanno che già domani saranno più vicini. Come Cenerentola, la favola di Mary Poppins finisce a mezzanotte.  
Una strada lunga centottanta chilometri percorre tutta la costa Nord. Verso ovest si va verso il rinomato tramonto di Negril. Non sono male neppure le imitazioni, ma pare che come il sole si butta in mare in questo estremo occidentale non si butti da nessun’altra parte. E l’appuntamento è al Rick’ Cafè: rum, musica e sunset da intenerire il core. Di giorno, invece, è gara a chi si tuffa più dall’alto. In quest’isola di spiagge, qui è spuntata una rupe a picco sul blu. E se non bastano venti metri di roccia a conquistare la ragazza o la mancia dei turisti, c’è il supplemento di un albero a fare da vertiginoso trampolino per un volo a capofitto. Negril è la Rimini giamaicana. Alberghi, ristoranti, bagni, bar, souvenir. E sorrisi romagnoli, in questa terra avara di cordialità per lo straniero. Dieci chilometri di spiagge ininterrotte e lucenti, è la vacanza meno dispendiosa dell’isola: ci sono grandi alberghi – uno sta aprendo da duemila camere – ma soprattutto pensioncine familiari e stanze in affitto. E un pasto si può risolvere con una specie di panzerotto piccante dalla pasta sottile ripieno di pesce, pollo o maiale che va alla grande. Si chiama “patty”. Mentre per chi vuol star leggero ci sono i banchetti rasta: fedeli alla loro filosofia propongono solo piatti vegetariani. E, magari, uno spinello al posto del caffè.

Da Montego in direzione ovest, verso Ocho Rios e Port Antonio, i nomi dei paesi finiscono con Bay: una spiaggia dopo l’altra, sulla sinistra, la voglia di fermarsi ogni volta, e baracche di pescatori color azzurro mare. A destra, canna da zucchero, palme e zenzero, banchetti di gamberi lessati e case a palafitta dritte sulle prime colline.
Sulla spiaggia di Rio Bueno, il 4 maggio del 1494, sbarcò Cristoforo Colombo. Un monumento lo celebra e un vecchio rasta travestito da rasta gli fa compagnia schitarrando per i turisti qualche brano di Marley. Forse più consono monumento, la gigantesca rafineria di bauxite, cento metri più in là, affacciata sulla baia da cui partono le navi per il Vecchio continente. Il genovese non era venuto per affari?
Ocho Rios ha un mercatino pittoresco. I venditori sanno che i turisti sono più interessati alle loro facce che alle t-shirt con Bob Marley e si lasciano fotografare solo in cambio di qualche dollaro. Prima sparano cachet da top model, poi si accontentano di cento dollari giamaicani, che sembrano tanti ma sono un Euro. Non c’ è foto gratis in Giamaica: appena si imbraccia la reflex, anche davanti a una spiaggia sconfinata e deserta, qualcuno compare e intima: “Money!”. Inutile spiegargli che non l’avevate neppure visto e che non vi interessa immortalarlo nel vostro album. Come non c’è mai un cielo sconfinato sullo sfondo di un’inquadratura: dovunque passano garbugli e ragnatele di fili elettrici. Lungo le strade grandi cartelloni spiegano che rubare l’elettricità è reato. Ma l’allacciamento fai da te è la regola. (continua)...

venerdì 18 marzo 2011

L'AMERICA ATOMICA DI ELVIS THE PELVIS di Marco Chierici


Per la seconda volta in due anni mi sono recato “in pellegrinaggio” a Graceland,
 la storica e magica tenuta di Elvis Presley. La dentro c’è tutta la sua vita, la sua storia, il vero tipico sogno americano realizzato. Per noi fans entrare in casa di Elvis Presley è un’emozione indescrivibile; osservare e fotografare tutti gli arredi, i 168 dischi d’oro, le dozzine di costumi di scena, le sue stupende auto, le motociclette, i due aerei…e soprattutto la sua tomba. Sul retro della casa, adiacente alla piscina, c’è il Meditation Garden con una fiamma   perpetua e una meravigliosa scultura che rappresenta Gesù con inciso il nome della famiglia Presley. Nel giardino, sempre fiorito e curatissimo, vi riposano insieme ad Elvis i genitori Vernon e Gladys e l’amata nonna Minnie. Elvis ci lasciò il 16 agosto 1977 e a oltre 30 anni di distanza si può ancora vedere ogni giorno ad ogni ora una fila di fans in fila alla biglietteria. Ogni venti persone parte un piccolo pulmino che attraversa l’Elvis Presley Boulevard ed entra dai famosi cancelli della musica. Un muro di cinta in sassi protegge la proprietà ed è così pieno di scritte che nemmeno più un centimetro quadrato consentirebbe di scrivere il proprio nome.
Elvis è ancora oggi l’artista che ha venduto più dischi nella storia; ha da tempo superato il miliardo di copie. Dal 1969 al 1977 si esibì in 1094 concerti con spettacoli sempre sold out e il pubblico in delirio. Fu protagonista anche di 33 film e di qualche special televisivo, il più celebre fu il Come Back Special del 68.
Sono stato nel Tennessee insieme a due miei carissimi amici: Joe Ontario, che è il miglior interprete europeo della musica di Presley, e Ivano Melcangi che è il suo eccellente batterista, nonché un simpaticissimo ragazzo di Milano. Noi lo chiamiamo Ronnie come Ronnie Tutt il batterista di Elvis. Joe, che potete vedere e ascoltare suwww.joeontario.it, ha inciso un singolo niente meno che alla SUN RECORD, la sala di registrazione dove Elvis “esplose” nel 1954 con il suo "That’s all right mama". Poi, durante una visita alla città di Nashville, abbiamo convinto Joe a cantare due pezzi in un locale del centro dove una band si stava esibendo. Quando lui ha preso il microfono e la gente ha compreso le sue qualità canore, il pubblico ha iniziato a fotografarlo e a filmarlo con i telefonini.
E’ stato bellissimo “vivere” il Tennessee e anche il Mississipi dove siamo andati per visitare la casa natale di Elvis, a Tupelo, circa un’ora di auto da Memphis. Di famiglia poverissima, Elvis visse da bambino in una baracca di legno di due stanze senza bagno; frequentò la chiesetta di Tupelo dove iniziò a cantare i gospel, fino a quando a 19 anni divenne un fenomeno planetario. Acquistò subito una casa per sé e per i genitori in un graziosissimo quartiere residenziale immerso nel verde (abbiamo scattato molte foto davanti all’abitazione), ma dovette andarsene dopo un anno perché migliaia di fans non lo lasciavano vivere in pace. Fu in quell’anno che acquistò Graceland, una delle case più belle che io abbia 
mai visto, circondata da alberi secolari e da un ranch con cavalli di razza.
Una sera, vicino alla mezzanotte, siamo tornati davanti alla casa di Elvis, è stata la più bella delle nostre emozioni, tutto il parco era illuminato da decine di luci colorate; un custode è uscito dal posto di guardia e ha parlato con noi almeno mezz’ora rivelandoci aneddoti e storie private del nostro idolo. Rivolgendosi a me, il guardiano ha chiesto da dove venivamo. “Dall’Italia? E che ci fate qui a mezzanotte dall’Italia?!” Ed io: “Noi amiamo Elvis”. E lui: “ Tutti amiamo Elvis”. Non siamo riusciti a corromperlo, era un vero professionista, avremmo pagato qualsiasi cifra per entrare di notte in casa di Elvis e pregare sulla sua tomba. Elvis Presley fu anche uno dei più caritatevoli uomini del secolo scorso, donò milioni di dollari in beneficenza e ancora oggi esiste una Fondazione a suo nome. Elvis is deathless, è immortale; tutti noi lo sentiamo come un amico fraterno e gli vogliamo un mondo di bene.
Non so se un giorno ci torneremo per la terza volta…non si sa mai.

giovedì 3 marzo 2011

LA ROSSA SABBIA DI OMAHA BEACH - di Rita Guidi


Conoscete il Paese dove i prati fioriscono sul mare ? E dove il rigore del vento anche d’estate non intacca la dolcezza delle case bianche a graticcio, i giardini da bambola, il calore - all’interno - delle marmellate e del legno ?
Questa è la Normandia. Il confine più bello. Orlo di Francia ritagliato sulla Manica. Luogo di scogliere e di spiagge di sabbia come di castelli e di cattedrali, di mondanità e di storia. Perché c’è la bellezza più magica e rude della costiera alta, quella che invita all’estasi gotica di Rouen, appena all’interno ; e al mare inquieto che si ritrae o si abbandona ma davvero all’infinito, giocando con i faraglioni e le “falaises” : rocce inarcate sull’acqua. E allora non rinunciate a Etretat, se vi trovate da queste parti. E non rinunciate alle “chambre d’hotes”, e a quelle di Madame Ginette Lebreton o di Madame Huguette Maillard, se proprio volete andare sul sicuro ; e cioè a quella sorta di bad&breakfast in versione normanna, che vi regala (in camera doppia il costo medio è di duecento franchi) un soggiorno tra i legni, le trine, le porcellane, il latte e le marmellate, di queste abitazioni con i balconi fioriti e il tetto spiovente.
Meglio qui che nella costiera bassa, onestamente. Comunque splendida, ma più turistico-mondana : le ville, i casinò, Deauville (serve parlarne ?), o Cabourg dove anche Proust amava soggiornare.
Anche questa è Normandia, certo. Ma poi ce n’è anche un’altra, che tutto questo vi fa dimenticare. E’ annunciata dal rigore asciutto di qualche cartello, non più grande di quelli stradali e consueti che incrociate ai semafori, tra i fiori e la folla : “Overlord les assault”, dicono. Fondo bianco e una freccia, la direzione è di nuovo la spiaggia. Le spiagge, anzi, che però sono altre. Nulla a che vedere col sole (anche se c’è lo stesso), gli ombrelloni o i giochi delle maree. Sono quelle dello sbarco. Chilometri di storia, in sostanza. Svelati da quel percorso attento e rispettoso. Silenzioso. Basta seguire la freccia. Il drammatico sbarco dell'operazione Overlord.  
6 giugno - 21 agosto 1944, quei cruciali giorni rivivono qui, e con una forza che va ben al di là della presenza a tappe di monumenti, carri armati, bandiere, lapidi. Più frequenti appena oltre il mitico ponte qual’è il Pegasus Bridge. Un pellegrinaggio solo un poco più spettacolare ad Arromanche, dove c’è anche un museo e un grande cinema circolare : si proietta a ciclo continuo un documentario di quei giorni. Quasi un film. Quasi come Spielberg, la cui drammatica pellicola da emozioni vietate ai quattordici, va collocata però un poco più avanti, seguendo la freccia, verso est. A Omaha Beach. Dove la sabbia, curiosamente, ha riflessi di rosso, che se fosse altrove sarebbe un colore così bello. E’ questo il luogo silenzioso dove ogni sentire commuove. E’ come ascoltare la storia, la guerra, la morte ; un dolore che si è fatto libertà. Non per il monumento austero e semplice, che raccoglie uno per uno i nomi dei battaglioni americani, uno dopo l’altro qui caduti : di 34.500 uomini, solo 100 arrivarono a destinazione (e alla vita). E nemmeno per quello scoglio, così terribilmente evidente, delle feritoie nemiche, in alto sul colle della  spiaggia ; davvero inespugnabili. L’emozione pura è semplicemente nell’aria. E’ questo verde, altare rigoglioso e vitale, che come in tutta la Normandia ricade fino alla sabbia. Alle spalle, tra le siepi, l’eco ordinata delle croci bianche del cimitero americano, appena visibili, al riparo dagli occhi. E intorno al sentiero che scende verso la sabbia ancora rossa, le rose canine, bellissime da pungere gli occhi. Profumano forte, nel loro rigoglio intoccabile e spinoso come questi luoghi.
Qualcuno arriva fin qui col camper, o ci parcheggia la roulotte. Ma nessuno nemmeno d’estate pensa agli ombrelloni. Quelli appartengono a spiagge vicine, ma è tutta un’altra storia. 

venerdì 25 febbraio 2011

ERITREA: IL NOSTRO IERI, UN PO' PIU' A SUD testo e foto di Paolo Pernigotti




L'Italia che non c'è più è lì.         
Impolverata dal tempo, sbiadita dal sole, ammaccata dalle avversità, per tutto ciò ancor più vera, come una vecchia pellicola neorealista dimenticata chissà dove. Il bianco e nero i due mondi che lì si sono incontrati, un secolo fa,  per non lasciarsi più.
L'Eritrea è un tempo ritrovato. Non è un altrove, è un allora. I cinema si chiamano Impero, Roma, Odeon; al Caffè Moderno, che ha novant'anni, i manifesti pubblicizzano Marsala e Digestivo Carciofo. Il Cynar deve ancora arrivare. Anche il logorio della vita moderna. Per strada gli anziani salutano chi ha la faccia da italiano con un “voi” di vecchia sudditanza, e con un sorriso di rinnovata giovinezza. Siamo, nonostante tutto, i loro bei tempi.
L'Asmara racconta ovunque di noi. L'architettura è una vetrina del bello che sapevamo fare, di pomposi sogni imperiali e di una piccola provincia trasferita lì con i suoi tic. I marciapiedi hanno ancora le piastrelle  a quadrettini, gli alberi una sottana di vernice bianca come catarifrangente, e c’è una vetrina che propone plaid Lanerossi per le fresche notti a 2400 della capitale: ultime occasioni. Passeggiare è un ritrovare e un ritrovarsi, per chi c'era, una lezione di storia viva per chi è venuto poi. C'è anche il traffico rado e silenzioso del nostro dopoguerra, in questo Paese che cerca un dopo alle sue guerre. Nelle strade circolano inconsapevoli cimeli d'auto storiche, Fiat 600 dai colori fuori serie sono banchi di scuola guida per i giovani che possono, autobus con lo snodo a fisarmonica portano le insegne dell'Azienda tranviaria milanese, gloriosi camion 692 rombano come nuovi: cinquant'anni di rattoppi non li hanno neppure stonati. E biciclette, tante biciclette. Mancano solo i ladri, nel vecchio film: la legge, da queste parti, non indossa il guanto di velluto.
Il viale alberato che attraversa la città racconta una Storia movimentata: è stato Corso Italia, Corso Mussolini, Corso Regina Elisabetta, Corso Hailé Selassié... Oggi si chiama Liberation Avenue, che va sempre. Confidenzialmente, Harnet. E' la via dello struscio, dei tavolini all'aperto, del grande Teatro Asmara dove qualcuno ricorda ancora Rascel e le gambe delle sue ballerine, è la via dei festosi convenevoli. La città ha quattrocentomila abitanti che si conoscono tutti, e il saluto non è un ciao, ma una mossa fra rugby americano e borseggio napoletano: ci si stringe la mano, seguono tre spallate a destra e sinistra, mentre l'altra mano sembra frugare nelle tasche dell'amico. Col tempo si impara.
Su Liberation Avenue sei cappuccini animano con lieta energia la vita della Cattedrale, Nostra Signora del Rosario, neogotico lombardo del ‘22, e una cittadella intorno fatta di scuole, collegio, tipografia e cinema. Cinema Dante. Poco lontana e poco frequentata, la vecchia sinagoga, molta più gente nella vicina moschea di Al Khulalfa, architettura italiana del '37. Chiese e moschee sono pari: 26 a 26. Ma Asmara è cristiana, la città islamica è Massaua. Cristiana copta. Una distesa di veli bianchi attende l'alba, ogni giorno, sul sagrato di Nda Mariam, la cattedrale ortodossa, altra firma italiana del 1913. C' è un ingresso per gli uomini, uno per le donne, e gli uomini devono entrare scalzi. Crocifisso o Maometto, il galateo è simile fra vicini di chiesa.
Brava gente, gli italiani, paterni coloni, ma ciascuno al posto suo. Così Liberation Avenue fissava i paletti: di qua il quartiere dei villini, notabili e parastato, di là il mondo degli indigeni. 
Ed è nel secondo che palpita il cuore della città, con il grande mercato coperto delle granaglie, della frutta e della verdura, dei teli stesi per terra con quello che passa l'orto, delle corriere sfondate che arrivano dalle campagne, sempre e solo posti in piedi, degli asinelli in mezzo alla strada, delle capre al traino zampa nella mano, degli scugnizzi dai riccioli di lana, delle grida, dei profumi, del tirare avanti giorno dopo giorno. Dei colori squillanti di quest’Africa alta come il Pordoi.
Medeber: tutto si crea e nulla si distrugge. E’ il vecchio Caravanserraglio, ai confini delle bancarelle: centinaia di minuscole officine strette l'una all'altra, cinquemila tute al lavoro, altrettanti martelli che battono all'unisono. Si ripara, si ricicla, s'inventa. Entra una stufa rotta, esce una pentola. O viceversa. Un viavai di gente che porta e prende, uno scampanio di ferri senza tregua, facce nere di sole e di morcia, lucide di sudore. La fucina di Vulcano. Ma un suo angolo è silenzioso e inaspettato. C'è una nebbiolina rossa nell'aria, tante porticine in fila lungo un muro di cinta, mucchi di sacchi ovunque. Lì nasce il Berberé, gloria nazionale, condimento d’ogni piatto, lì si macinano i peperoncioni di queste parti. Il piccante entra negli occhi forestieri, nel naso, nella gola, è subito un tossire e lacrimare. Le ragazze alle macine ridono belle, loro la respirano ogni giorno quell'aria irrespirabile, neppure se ne accorgono. Una dorme su un sacco e sembra sorridere, mentre scende su di lei una cipria rossa: chissà cosa si sogna in quella nuvola.
Asmara è a 2400, ma per godersela tutta in un colpo bisogna salire ancora un po'. Sul campanile della cattedrale, se il sagrestano ha voglia di dare la chiave e il visitatore di farsi 165 gradini, oppure sulla collina di Chrit.  C'è un bar a forma di fungo panoramico e la città ai propri piedi, da ogni parte. Poco lontana, un'altra collina di terra rossa come il Bereberé,  Haz Haz, il quartiere dei tucul. Ma non chiamateli così: incontreresti solo sguardi perplessi e divertiti. Lì li chiamano “agdo”, e ci vivono ancora. Hanno la forma di una capanna circolare in muratura, ancora qualche traccia di intonaco azzurro,  con il tetto un tempo di paglia e oggi di lamiera. E' facile essere invitati a entrare. Li abitavano gli ascari, erano il premio alla loro fedeltà di combattenti sotto il tricolore, oggi li abitano i pochi sopravvissuti o i loro figli. In pochi metri tondi ci stanno anche quattro o cinque ambienti. Poco più che loculi, ma chi ci abita ne è orgoglioso: quella capanna è una medaglia. Di più non hanno avuto.
L'altro versante di Liberation Avenue sono le colline residenziali dei conquistatori, il quartiere dei villini. Le bouganvillee in giardino erano le mostrine di chi ci abitava. Dove vivevano gli alti gradi oggi abitano le ambasciate, ed è ancora così: più bouganvillee, più il Paese conta. Villa Roma, rappresentanza italiana, è fra le più belle, ma è diritto acquisito.
Ad Asmara non solo gli anziani parlano la nostra lingua: seicento ragazzi frequentano le scuole italiane, sparse nella zona residenziale. Un'ottantina i loro insegnanti, che è facile incontrare alla Casa degli italiani, magari davanti a un’aragosta. Perché quelli all’estero sono gli unici insegnanti italiani ben pagati – lamentano i loro colleghi stanziali. Ma anche perché un pranzo medio, in Eritrea, non costa più di dieci Euro, al cambio ufficiale. Cinque a quello nero.
La Casa degli italiani è un'istituzione: nostalgico e orgoglioso circolo privato, ha un' emeroteca dove arrivano stagionati quotidiani italiani e il mensile “L'Alpino”, una saletta dove proiettare Montalbano o Verdone in dvd, qualche biliardo dal panno rosso, gli Azzurri in festa sulle pareti, e un ristorante aperto a tutti che è il più pregiato della città, con spaghetti ai gamberi da far passare qualsiasi nostalgia e i tavolini quadrettati all'ombra di due palme a lungo fusto. Le ha piantate Jesus Cuvrom, barba bianca e occhi grigi. E' lì da quando ha lasciato le sue capre, a diciott'anni. Oggi ne ha settantotto. E' il custode. Il piantone, precisa con aria militaresca. E' anche prete ortodosso: la Casa degli italiani è la sua parrocchia.
Ma c’è un’altra, più mesta casa degli italiani, alla periferia sud ovest: il grande camposanto di chi ha fatto quest’Africa a nostra somiglianza. Le tombe di famiglia non hanno bouganvillee, ma anche qui si capisce chi in Eritrea aveva trovato un po' d'America e chi no. Le croci dei soldati, invece, sono tutte uguali, le tiene in riga il loro generale. Per quasi tutti la data di morte è il '38, quella della nascita mai abbastanza lontana. A due passi un altro cimitero: Kagnew Station, una montagna di rottami arrugginiti in un grande campo, cataste di carri armati, autoblindo, cannoni, jeep, alte fino a sette, otto  metri e lunghe oltre un centinaio, l'una accanto all'altra. E’ orgoglioso bottino di guerra. Un monumento alla vittoria sugli Etiopi, alla liberazione, ai Caduti.
C’è un albero in Eritrea più famoso di una star: è un sicomoro, campeggia sui biglietti da cinque Nakfa, dieci centesimi di Euro, ed è un simbolo del Paese. Esiste realmente: a Segheneiti, una cinquantina di chilometri da Asmara, sulla strada per l’Etiopia costruita dagli italiani nel 1903. E’ millenario e sotto i suoi rami, che si aprono in un raggio di trentacinque metri, contorti come radici capovolte, possono starci 1500 persone. Altri ce ne sono nei pressi, quasi altrettanto spettacolari e solenni, ma non è solo la Valle dei sicomori a giustificare un’escursione  nella regione a sud della capitale. Proseguendo per un’altra settantina di chilometri, sempre in quota, si arriva infatti a Kohaito, dove reperti del primo millennio avanti Cristo raccontano la storia più antica dell’Eritrea: incisioni rupestri, una stele, una tomba, colonne dell’epoca axumita e preaxumita. Dove il picco più alto del Paese, l’Amba Soira, dai suoi tremila metri offre una vertiginosa veduta delle vallate sottostanti, un volo dello sguardo che si perde fra nebbie lontane.
Due strade partono invece da Asmara verso est, direzione Massaua: una lenta e spettacolare, tornanti d'alta quota, strapiombi e corone d'altri monti all'orizzonte, l'altra, più frequentata e veloce, che segue per un tratto la vecchia ferrovia e ha intorno colline terrazzate a perdita d'occhio. Si congiungono a una trentina di chilometri da Massaua, a Gahtelai, un villaggio che è stazione di posta per un tè, un caffé o una preghiera in moschea. Poche auto e pochi camion, ma molto traffico: capre, mucche, asinelli, dromedari. E pastori che sembrano cristi in croce, diritti e sottili, un lungo bastone appoggiato sulle spalle, dietro al collo, le braccia appese e penzoloni. Ogni tanto qualche impala taglia la strada, o un branco di scimmie dal sedere spelacchiato. Ogni tanto un villaggio lontano, case che sembrano mucchi di pietra, solo i panni stesi a distinguerlo dalla montagna. Ogni tanto una distesa di Dagusa in mezzo alla strada, il cereale con cui si fa la birra eritrea. Non si è rovesciato un carro: lo trebbiano così, facendoci passare sopra il traffico di passaggio.
Massaua è il fantasma di una principessa. E prima di lei si incontra la sua corte. Una corte dei miracoli, una periferia di catapecchie fatte di latta, con i tetti di latta, sotto un sole che arriva anche a 40. Eppure sorridono festose salutando la macchina che passa con le facce bianche, eppure ridono fra loro le ragazze più belle d'Africa, mentre lavano in un mastello i veli colorati come per una festa che non finisce mai. Non sono solo belle.
Poi un chilometro di ponte sul mare introduce a corte. I fantasmi sono bianchi, e a Massaua dona sullo sfondo azzurro. La principessa dorme, le strade della città vecchia sono vuote e silenziose, le case sembrano disabitate, come se la grazia ferita della città non potesse più reggere il peso e i rumori della vita. Ma i terremoti e le bombe che l'hanno martoriata hanno perso la battaglia: la caducità ha reso più preziosi i suoi tesori. Massaua ha sangue antico, ottomano e veneziano. E' arabo il suo labirinto di vicoli, angoli sapienti dove spremere il vento di mare, sono arabi gli stretti portici, i balconcini di legno intarsiato. Su altre facciate, invece, si aprono finestre rubate al Canal grande, ricami Liberty impreziosiscono gli occhi vuoti della scheletrita Banca d'Italia. La bella addormentata si sveglia di notte. L'hotel Torino accende la sua insegna tricolore e riempie la terrazza all'ultimo piano di musica e di balli, saracinesche nascoste svelano poveri bar e inondano la strada di luci rosse e soffuse, come la polvere del Berberé. Anche qui, come al Caravanserraglio, ci sono ragazze dentro. E qualche marinaio, qualche turista solo. Case in brandelli mettono fuori tavoli, tovaglie e profumi di mare a fuoco lento. I bambini giocano con palloni di pezza nelle strade senz'auto. Solo qualche Ape-taxi giallo con pezzi di cancello per portiera. Anche quello Liberty italiano.
Davanti a Massaua ci sono duecento isole coralline: le Dahlak, un paradiso che attende. C’è un caicco da crociera, uno solo, per chi riesce a prenotarlo, c’è qualche sambuco per chi è disposto a dormire in tenda sulle spiagge, e c’è un albergo a metà, nient’altro. L’albergo sta lentamente crescendo sull’isola di Dissei, una delle tre o quattro abitate: centoventi persone, sette dromedari, cinque asinelli, capre non pervenuto. Il resto è un mondo vergine di trasparenze, coralli, spiagge bianche, bassopiani di acacie. E’il futuro turistico del Mar Rosso. E’ un presente  da cogliere in fretta.


  






martedì 22 febbraio 2011

CHIOCCIOLE CON LE RUOTE - il grande nord (in camper) di Cesare Pastarini



La ricetta è facile, gli ingredienti si trovano senza problemi.
 Due camper a noleggio e due equipaggi formati rispettivamente da due genitori con una figlia di 5 anni e altri due con bimbe di 3 e 6 anni. Quattro biciclette con seggiolini, perché nelle città si gira meglio su due ruote. In una pietanza come questa, sono importanti anche le dosi, per cui aggiungete un numero: 9200. Ritroveremo questa cifra più avanti. Ah: cercate anche un po’ di spirito, perché è qui che dovrete immergere gli ingredienti. Noi lo spirito lo abbiamo trovato e siamo partiti con l’ambizione di attraversare l’Europa, anche nel tentativo di allontanare i pregiudizi sul rapporto camper-bambini. Chiocciole con le ruote e colonna sonora di Jovanotti, in due giorni si arriva in Danimarca. L’ambiente confortevole della «casa» mette a proprio agio Carlotta, Margherita e Maria Vittoria, per le quali avevamo preparato il viaggio con cura, con varie attività di svago, giochi, bambole, pennarelli e un po’ di compiti (rimasti da fare). Ma si trovano bene anche gli adulti, soprattutto quel papà e quella mamma non avvezzi a questo genere di vacanza. I tabù verso il camper svaniscono al Brennero, guidare è perfino rilassante e si impara presto a conoscere il mezzo.La città della Sirenetta Il simbolo di Copenaghen vale uno sguardo, perché protagonista di una fiaba di Andersen. E’ posizionata all’ingresso del porto di una città che riesce a regalare belle emozioni con l’architettura e con la complicità di un museo d’arte moderna, il Louisiana. La sua location è mozzafiato: grande giardino sul mare, sculture di Moore e Calder posizionate sull’erba tagliata all’inglese. E poi Cézanne, Picasso, Giacometti. I bambini sono i primi benvenuti. Oltre alla libera corsa sul prato, i più piccoli possono accostarsi all’arte grazie a divertenti laboratori artigianali.
Il salto verso Oslo Si può fare in comoda crociera. Divertimento sulla nave, poca gioia in città. La capitale della Norvegia non offre granché per i bambini. Però c’è il Munch Museet: «Young woman on the shore», «Red and White», «Madonna» sono dipinti che rapiscono al pari della tela più famosa: «Il grido». Nei dintorni di Oslo c’è il Viking Ship Museum, con esposte alcune navi vichinghe databili intorno all’anno 900. Il viaggio attraverso la Norvegia riparte alla volta di Bergen. Campeggi per riposare e per il rifornimento di acqua dei camper si trovano ovunque, tutti da favola. Soprattutto sui fiordi, rami di mare che penetrano tra le montagne e rendono frastagliato tutto il Paese. L’equazione 1 fiordo > 1000 fiordi non è lontana dalla verità: sono molto simili tra loro. Spesso occorre traghettare i mezzi per proseguire il viaggio. Proprio sui traghetti, però, si può avere uno degli incontri più simpatici, quello coi delfini.A Bergen, considerata la porta dei fiordi, incappiamo in una regata storica. La città è troppo affollata per essere visitata con calma. Resta comunque una borgo marinaro pieno di giovani, soprattutto grazie alla sua università. Al mercato del pesce si possono gustare fritto misto e squisiti gamberetti venduti da studenti stranieri che si pagano la permanenza. Poco a nord di Bergen, c’è Jostedalsbreen, il più grande ghiacciaio d’Europa su terra ferma. Una breve passeggiata nel bosco, non sono necessarie le scarpe da trekking, e si arriva al braccio Briksdalbreen. Occorre ritirare fuori lo spirito per salire in gommone e, con l'aiuto di una guida, pagaiare in mezzo al lago sottostante il ghiacciaio. L’emozione non resta solo ai bambini, anche loro muniti di remo.Le isole Lofoten La rara popolazione vive di pesca. Non a caso nel paese di A (si chiama così) c’è il Museo dello Stoccafisso. Centinaia di merluzzi appesi sui graticci. Accanto a loro, un corvo sgozzato, monito per uccelli affamati che sorvolano la mensa. Sabbia finissima, acqua più limpida del ghiaccio, una pace rotta solo dal verso dei gabbiani. I fondali dell’arcipelago meritano un'immersione. La temperatura dell’acqua è di 8°, in inverno arriva a 2°. A -30 mt la parete è abitata da colorati anemoni, stelle, ricci e granchi. Abituati al mar Mediterraneo, non ci si aspetta tanta vita sottomarina. Invece, navigando per circa due ore dalla costa, se si ha fortuna e pazienza, si possono vedere le orche.Lasciamo le Lofoten. Una località particolarmente piaciuta alle bimbe è Alta, sito a cielo aperto di scritture preistoriche risalenti a 6000 anni fa e raffiguranti nitide scene di caccia e pescatori in barca.Capo Nord ormai è lì. Un’aquila è appostata su di un sasso, quasi a voler controllare i movimenti degli estranei a motore. Poi ci sorvola silenziosa. Le renne insistono a interrompere il nostro cammino. Una volpe fa l’occhiolino sul ciglio della strada. L’alce continua a sgranocchiare una corteccia. Intanto i due camper vanno, e vanno. Arrivano alla meta dopo due settimane.Nordkapp E’ il punto più a nord dell’Europa continentale. All’imbrunire il sole e la luna sono esattamente alla stessa altezza, uno di fronte all’altra. Entrambi pieni. Entrambi non cedono il passo all’altro. Il freddo gelido si fa sentire, l’emozione di essere in cima al mondo è troppo forte per restare chiusi nelle nostre chiocciole. In realtà le bambine stanno talmente bene che non vorrebbero mai scendere. Passeggiata nel grande piazzale, foto di rito davanti al Globo e cena a lume di candela. Nel camper, ovviamente. Il sole tenta di tramontare oltre la mezzanotte, ma alle tre è già lì che sorge. Un «amico» ci ricorda che siamo solo a metà del viaggio.Allora via, si torna giù Verso il parallelo del Circolo polare, a Rovaniemi, in Finlandia, il paese dove le bambine incontrano il «vero» Santa Claus, nel suo ufficio pieno di letterine. L’emozione è palpabile. Figuratevi: «Piacere, io sono Babbo Natale. Voi come vi chiamate?».
Poi ancora più giù, a Stoccolma, alla casa-gioco di Pippi Calzelunghe e dar sfogo alla frenesia, giustamente impossibile da contenere. La città, bellissima, meriterebbe almeno tre giorni di visita. 
Nota per i camperisti: il campeggio vicino al centro di Stoccolma è molto piccolo, conviene prenotarlo per non dover alloggiare altrove. Con l’entusiasmo per aver compiuto la nostra piccola impresa, dopo tre settimane siamo di nuovo in Germania, poi in Svizzera, poi a Parma. 17 pieni di carburante, 9200 chilometri. I conti tornano e con loro tornano anche le due chiocciole, non lumache.

lunedì 21 febbraio 2011

SIGNORI, SI PARTE


Benvenuti a bordo.
Chi ama viaggiare conosce perfettamente questa frase. Gli istanti prima del decollo. 
L'inizio di un volo verso ciò che è sempre nuovo: nel tempo e nello spazio.

Benvenuti a bordo. Questo blog nasce per condividere una preziosa idea di altrove.
Non un taccuino di viaggio: bello e importante, certo, come una fotografia, un ricordo, un documento.
Però no, non questo. 
Il nostro blog trotter è un biglietto per l'emozione; in rotta tra quegli istanti e quei luoghi che ci hanno scavato dentro un fuoco indelebile, come una piccola rivelazione.
Sarebbe banale ricordare l'eterna differenza tra turisti e viaggiatori. Ma sarebbe altrettanto banale non ammettere che se ogni viaggio è una storia, solo alcuni - pochissimi - ci attraversano dentro, stabiliscono un prima e un dopo, si appropriano di qualcosa di noi così come noi ci appropriamo di quei luoghi e di quegli istanti.

Siete pronti? Vi aspettiamo. Autori di reportage da orizzonti immobili o lontanissimi. Da un "posto d'avanguardia, all'estremo limite del nulla" ; da un tuffo nella poesia o nell'oceano inviolato; dai sentieri della storia, della bellezza, della natura  o da quelli dell'anima.

Qui il viaggio è emozione. Le valigie lasciatele giù.