sabato 13 novembre 2021

NELLE OMBROSE STANZE DEL VATE - INVITO AL VITTORIALE di Rita Guidi

 



Curioso di quanto buio avesse bisogno chi, come lui, amava la luce.

Gabriele D’Annunzio si abbandona alla penombra fin dall’ingresso di questo suo Vittoriale. Residenza ultima dell’ormai quasi sessantenne poeta, dal 28 gennaio 1921, fino alla morte, avvenuta proprio qui il 1° marzo 1938.

Fuori Gardone Riviera, e il riverbero dolce del lago, dentro lui, e la scelta di un buio palcoscenico, come a sedare i troppi riflettori di una vita, prima ancora che la dolorosa ferita di guerra agli occhi. Perché è lui a volerla così : e così ristruttura, col fidato architetto Gian Carlo Maroni, quella Villa Cargnacco, (precedentemente occupata dal critico d’arte tedesco Henry Thode) che acquista insieme ai circa nove ettari circostanti.

Una delle sue tante volontà realizzate, che chiamerà "Il Vittoriale degli Italiani” : un dono (l’atto di donazione è immediato, porta la data del 1923) per ricordarsi, ricordare, essere ricordato. 

“Io ho quel che ho donato” si legge all’ingresso di questo immaginifico luogo, in una delle tante epigrafi che punteggiano di parole (poteva non essere così ?) la sua presenza. 

“Tutto è qui da me creato o trasfigurato” insiste e scrive lui stesso. Uno stile da passeggiare, fuori, al suono dell’acqua verde della grande “fontana del delfino”, o a quello incessante del Riosavio e del Riopazzo, lungo i giardini privati. Ancora acqua, ferma, di lago, come cornice al teatro all’aperto ; o come ricordo : alla prua incastonata nel colle della nave Puglia, o alla prora del M.A.S. ; testimoni svelate di beffe e di imprese del giovane D’Annunzio.

L’esteta luminoso e illuminato dalla fluorescenza delle proprie parole, vive qui. Al buio. Sollievo alle cicatrici dello sguardo, omaggio all’inquietudine, ultima sfida alla propria creatività. Un buio cui non servono le foto, traditrici nella loro necessità di chiaro. 

Nella Prioria (così chiamava il suo mondo schermato) occorre entrarci. Respirarne i legni cupi, i tappeti, i mille oggetti, gli arazzi, che chiudono fuori il mondo. Più che prigione, clausura, più che rifugio cripta : non è un caso che arredo e immagini, citazioni e libri, rinviino a monasteri francescani o d’Oriente, e a Dante. Inferno, purgatorio e paradiso convivono nelle stanze, si alternano tra le stanze di questa casa. 

Per questo, a volte (sempre, nel compleanno dei suoi ricordi) D’Annunzio si ritirava nella “stanza del lebbroso” : un letto a una piazza, un grande rosario e, come sempre, finestre cieche di vetrate cifrate di salmi, per il suo bisogno di essere triste, solo, indisturbato ; come chi (lui, i lebbrosi...) è toccato da Dio. 

Altra concentrazione, e bisogno di purezza, che ritroviamo nella stanza del giglio, dal decoro dipinto fino alla nicchia tra i libri, pronta a raccogliere il suo studio e la sua meditata lettura. Frequente, quanto meno : i libri, qui sono a migliaia ; stipano pareti e corridoi. Sontuosi e d’arte, nell’elegante Stanza del Mappamondo ; un poco rannicchiati nella Zambracca, la sua stanza più frequentata e preferita, su una parete il guardaroba, più in là i medicinali, e un tavolo quadrato sul quale consumare un frugale pasto.

 Ancora libri : accatastati nei corridoi ; agili nelle librerie girevoli della splendida Veranda dell’Apollino ; austeri nello Scrittoio del Monco, dove corrispondeva fino alla stanchezza (e al fingersi, appunto monco) alle mille lettere ; incombenti, nella Stanza del Mascheraio, destinata a far attendere ospiti sgraditi ; solari (finalmente, sì !), nell’Officina, dove il poeta scriveva, tra legni più chiari e finestre esistenti. 

Per entrarvi occorre abbassare il capo (all’arte), ma colpisce di più il capo velato di Eleonora Duse, che D’Annunzio voleva alle spalle, e per la quale resta l’ultima dedica, accanto agli occhiali, sul foglio. Presenza che aleggia anche altrove, nella casa ; fosse anche solo nell’eco degli oggetti uguali a quelli che lei gli aveva donato (un gruppo bronzeo di Kelety), addensati, come in ogni altrove, nella Stanza della Leda, la camera da letto densa di cineserie e vasi del poeta. I cuscini sono tanti e morbidi, come nomi femminili. Tanti quanti sono gli oggetti che materializzano ogni ricordo, nella stanza delle reliquie. Molti sono disposti su di un vero altare ; così come un vero coro monastico, in legno, arreda l’oratorio del Dalmata, sala d’attesa, questa volta, per gli intimi. Attesa festosa, chissà ?, per quella Sala della Cheli, destinata al pranzo, che per una volta è l’omaggio e il trionfo del colore :rosso, oro, azzurro (come tutto blu, invece, è il bagno) ; una libera scelta dell’architetto, per questa ala nuova, lo Schifamondo, della residenza.

 Eppure, anche qui, un ammonimento : la tartaruga imbalsamata, da cui la stanza prende nome, morta di indigestione in questo grande giardino, adorna il grande tavolo. Di nuovo un cenno di penombra, all’allegria conviviale di chi preferiva il motto “cinque le dita, cinque le peccata” : libera riduzione, sottraendo avarizia e lussuria, ai sette vizi capitali.

E di chi adorava la musica : sarà forse per questo che proprio questa Stanza (della Musica) ci è sembrata la più suggestiva. Il piacere dei cuscini e degli arazzi, i mille oggetti d’arte, i tappeti, le colonne...Per affogare nei suoni ad occhi chiusi. O aperti : il cenno breve di poche lampade, garantisce (di nuovo) il buio, anche a chi, come D’Annunzio, aveva amato la luce.

Improvvisa è la voglia di uscire. Piazzetta Dalmata e il Vittoriale riaffiorano luminosi. Il mausoleo, dov’è la salma di D’Annunzio, è bianco. Alla sommità del colle è ordinato e rotondo. E nel clima dolce del lago, ha quasi sempre il sole.

 

                                          Rita Guidi

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