martedì 24 maggio 2011

GIAMAICA: IL VERDE ORIZZONTE DI BOB MARLEY (2) testo e foto di Paolo Pernigotti

Non c’è solo “Via col vento”, la Terra dei resort offre altri film: da “Tarzan” a “Lo squalo”, da “Indiana Jones” a “Sandokan”. Qui la scoperta della natura diventa gioco, avventura; le spiagge e la foresta sono un grande parco a temi, pieno di americani che non se ne vorrebbero più andare. Ocho Rios è base ideale per queste escursioni nei paesaggi della Giamaica e della fantasia. Si può volare sulla foresta di Cranbrook appesi a cavi d’acciaio: da una Palma Gigante a una maestosa Ceiba a una Sequoia,  imbragati in moschettoni da ferrata e legati a una carrucola per guardare la jungla dall’alto in basso. Si chiama “Canopy Tour”.  Oppure giù per il “White River”, sprofondati  in un canottino grande come un salvagente, fra romantiche lagune e innocue rapide, sotto volte di felci e bambù. In mare, invece, si va a cavallo: a nuotare a sei zampe dove neppure gli zoccoli toccano più. O in giro su jeep tigrate da safari. O in mountain bike, in dune buggy, in canoa, persino su carriolini trainati dai cani. Per  queste escursioni si parte nei pressi della spiaggia di Priory, dove ha il quartier generale la “Chukka Caribbean Adventures”, premiato divertimentificio dell’isola.
Anche le “Dunn’s River Falls” sono diventate un gioco: per qualcuno sono le più belle cascate del mondo, ma qui ci si viene soprattutto per scalarle. Costume da bagno e mano nella mano, in cordata fra le rocce levigate e scivolose, si parte dalla sfavillante spiaggia dove il Dunn’s River si butta in mare e ci si inerpica controcorrente, nell’ombra della foresta tropicale, per un dislivello di circa duecento metri. Fra scivoloni e bagni, risate e ammaccature, ci si dimentica solo di guardare il paradiso intorno.
Più tranquilla la visita di “Prospect Plantation”, a cinque chilometri dalla città, in cima a una collina: su un “jitney”, una specie di vagone trainato da un trattore, attraverso colture di banane, caffè, manioca, ananas, palme da cocco e caffè, fino all’antica villa padronale, sulla sommità che domina la baia. Più Disneyland, invece, “Dolphin Cove”, sempre in zona: quinte di cartone per un villaggio di pirati tutto boutique, ristoranti e ombrelloni. Sono veri i delfini, ma sono falsi i loro baci ai turisti: se non c’è lo zuccherino non se ne parla. E sono veri gli squali, che passeggiano in piscina accanto ai loro istruttori, ma hanno l’aria imbambolata di pescicagnolini già satolli e innocui.
 La strada continua la sua corsa – si fa per dire – verso Port Antonio, all’estremo orientale dell’isola. Si alternano tratti asfaltati e Camel Trophy. Ottanta chilometri in tutto, non meno di tre ore. La strada è in rifacimento, una ventina di grandi cantieri sono aperti, un esercito di ruspe e caterpillar è schierato. I lavori fervono, ma lentamente. Tutto in Giamaica è sloly: fa caldo. Solo al volante i giamaicani si scatenano. Qui si guida a sinistra, ma non preoccupatevi se intendete noleggiare un macchina: vanno tutti al centro. Ai lati ci sono buche profonde e le sospensioni sono sacre, ogni incrociarsi di auto è una sfida all’ultima sterzata. Spesso va bene.
Con la strada che c’è, il turismo non ha ancora invaso Port Antonio, e alle banchine approdano più bananiere che alberghi galleggianti della Royal Caribbean. Ci si può mescolare alla gente senza essere assaliti dai venditori di souvenir, si può passeggiare anche di notte senza essere assaliti. I dintorni di Port Antonio sono la villeggiatura dei giamaicani bene: grandi ville nel verde della foresta tropicale, che aprono i battenti nel fine settimana, e alberghi di charme che fanno tanto colonia di sua maestà britannica. Il cuore di Port Antonio è la piazza dell’orologio: su un lato si aprono le baracchette del Musgrave market, dove il parrucchiere e il sarto lavorano in strada, sull’altro alcuni edifici rossi e imponenti, come il Village of St George, stile olandese, e il georgiano tribunale sormontato da una solenne cupola. Poco lontano, in Harbour Street, l’anglicana Christ Church: stile neoromanico, anche qui mattoni rossi, oche e galline sul sagrato. Port Antonio ha le sue memorie più sfavillanti su un isolotto che chiude la baia di West Harbour: Navy Island. Negli anni ’50 l’acquistò Errol Flynn e divenne un’appendice della leggendaria Hollywood d’allora: feste e festini, lusso e lussuria. Se ne favoleggia ancora, ma oggi ci vanno i vacanzieri della domenica con il latte di cocco nel thermos.
Fantasma di vecchie glorie – nel suo biancore e nella sua grandiosità – anche il “Trident Castle”, tre chilometri verso est. Lo volle così, alla fine degli Anni ’70, una baronessa dal nome impegnativo: Elisabeth Siglindy Stephan von Stephanie Tyssen. Tutto torri e balconcini, arroccato su un promontorio, parco a gradoni e scalinate che scendono in mare, è disabitato da tempo. Basta scostare il grande cancello in ferro per entrare, aggirarsi fra i vialetti affacciarsi dalle terrazze sul mare. Non c’è nessuno. Però, chissà perché, si cammina in punta di piedi. Anche il mare non fa rumore.
Un film è stato girato davvero da queste parti: “Laguna blu”. A dieci minuti dal castello, il ricordo di Brooke Shields e lunghe zattere di bambù aspettano i turisti. Sotto ci sono 52 metri, sopra tutti colori del blu, intorno la foresta che si piega sull’acqua.  
Ma si può andare in Giamaica senza andare a Kingston? Sì. Sono centocinquanta chilometri dalla costa sud e la capitale non merita il viaggio. Ma il viaggio merita. Attraversa la parte più interna dell’isola e ne svela il volto più antico e autentico. Curve su curve e traffico giamaicano, ma un mondo di contadini e pescatori che non ruba neppure la luce perché non sa che farsene. La foresta tropicale è padrona incontrastata, la strada è spesso un’ombrosa galleria dal tetto di felci e bambù.
Verso Kingston s’incontra l’antica capitale della Giamaica: Spanish Town. Con i suoi 120.000 abitanti è la seconda città dell’isola e si coglie il suo trascorso splendore nelle tante case patrizie in stile georgiano, cariche di rughe e nobiltà. Ha una bella e deserta piazza spagnoleggiante del 1500, giardino con monumento al centro e solenni edifici in mattoni rossi sui quattro lati: un angolo d’Europa su un pezzo d’Africa alla deriva in America.
A Kingston mettete la sicura agli sportelli dell’auto e l’occhio sul navigatore: finire fra i ghetti della zona ovest o in Down Town dopo il calar del sole può essere un’esperienza fin troppo pittoresca. La zona degli alberghi – New Kingston - è invece tranquilla anche di notte ed è vicina al “Parco dell’Emancipazione”, una delle poche attrattive della capitale per il suo verde ordinato, le sue fontane luminose e il celebre monumento “Redemption Song”, della scultrice Laura Facey Cooper, costato oltre quattro milioni di dollari e giudicato da molti troppo “hard”. Raffigura un uomo e una donna di colore, nudi, uno di fronte all’altra. Sono due statue imponenti. Ogni dettaglio è piuttosto imponente.
Devon House è il più elegante edificio della capitale, il miglior ristorante dell’isola e la più prelibata gelateria: tre buoni motivi per una visita. Risale al 1880, ha una facciata ocra e bianco in corso di restauro e si affaccia su un quieto giardino. Ospita il “Norma’s on the terrace”, cucina rigorosamente giamaicana e terrazza romantica. La gelateria si apre sul giardino: a portata di panchine per gustarsi le specialità al rum e allo zenzero.
A Kingston c’è il museo più importante e famoso dell’isola. In una sala un ritaglio di giornale italiano: “Per un bruno così si può anche delirare” – scriveva Natalia Aspesi il 28 giugno del 1980. E si riferiva a Bob Marley in concerto a Milano. Il museo che lo celebra è puro feticismo: c’è tutto ciò che gli apparteneva e ha fatto parte della sua vita, i dischi di platino e le foto da bambino, i buchi sul muro di quando gli spararono e il letto su cui dormiva. Le visite sono guidate ed è vietato fumare. Sigarette.

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