L’osteria di Roncole era lontana al punto giusto. Per i musicanti di
ritorno da Borgo San Donnino, dopo un’intera giornata spesa in canti e risate
alla sagra del paese, non avrebbe potuto esserci nulla di meglio, in quella
tiepida sera d’autunno: prima di fare rientro a casa, un po’ di sosta per i
cavalli, e una scodella di vino sincero per rinfrancare la gola. Da Verdi. Che
a quanto pare, esattamente quella sera, era indaffarato non solo a servire i
soliti clienti ma anche a diventare papà.
Giuseppe
Verdi, anzi, Giuseppe Fortunino Francesco Verdi venne infatti al mondo qui,
alle otto di sera di quel 10 ottobre 1813. Qui, e cioè al piano di sopra di
questa sua prima casa di Roncole (di Roncole, non di Busseto: “Sono stato e
sarò sempre un paesano di Roncole”, scriveva lui stesso nel 1863), che era
appunto anche osteria e cantina, stazione di posta e camera da letto… Luogo di
vita e di lavoro, così come chiedeva la realtà rurale d’Ottocento. E venne al mondo al suono della musica
(poteva non essere così?), quella degli allegri clienti cha papà Carlo stava
dissetando giù dabbasso.
Adesso,
invece, c’è silenzio. Tra queste mura pulite (appena adesso restaurate), dentro
le quali si ascoltano curiose parole : “di là il forno, più su la legnaia…” E
anche da fuori, se non fosse per il rintocco secolare di una campana, arrivano
rumori moderni e diversi: motori, clacson, frastuoni di strada e di passaggio.
Comunque assopiti.
Ma dentro
è un silenzio da ascoltare con gli occhi. Perché c’è l’ingresso, dopo il grande
portone, che apriva subito al grande tavolo dell’osteria; e ci sono le tazze,
anzi, le scodelle di legno, proprio quelle che arrivano da quei giorni di primo
Ottocento, preziose e brune, anche se certo il nostro piccolo Giuseppe non vi
bevve mai…; e i pavimenti corrosi e le travi, la luce facile da immaginare
fioca, elargita dai camini e dalle fiorentine…
Ma più
di tutto c’è un’eco. L’emozione e il suono di un primo sorriso; o forse un
pianto (una caduta?). I passi. Un bambino che arrampica in fretta lungo queste
strettissime scale. L’infanzia normale del maestro più celebre. Le piccole
finestre sicure dalle quali iniziò ad affacciarsi alla sua grande vita.
E
davvero il restauro di questa semplice dimora che ora è monumento nazionale
aiuta insieme a comprendere e a fantasticare. Il rigore delle scelte, che ha
sottolineato l’essenzialità delle strutture e dei muri, e che ha preferito
suggerire (senza falsamente sostituire) nelle scelte d’arredo, aiuta a
enfatizzare lo spazio e le assenze. A far muovere tra il braciere e il camino
Luigia Uttini, la madre del nostro Verdi; a far frugare Carlo tra le damigiane
e i salumi della ghiacciaia-dispensa; a far affacciare il piccolo Giuseppe al
davanzale dell’unica camera da letto. Quella che guarda oggi come allora alla
piazza e alla chiesa di San Michele. Prima occasione, per lui, di diventare
Giuseppe Verdi. Non solo per il battesimo, naturalmente; perché è vero che qui
è stato battezzato (in francese, chè Roncole apparteneva al napoleonico
Dipartimento del Taro). Ma soprattutto perché sullo stesso organo che
ascoltiamo oggi, le sue mani infantili armeggiarono per la prima volta con le
note, sotto la guida di Pietro Baistrocchi. Forse prima o più probabilmente
dopo che il nostro Giuseppe chierichetto, rapito (guardacaso) dalla musica,
dimenticasse di servire messa, rimediando così una sonora pedata dall’allora
parroco Don Jacopo Masini.
Sculacciata celebre assai più di qualcun’altra
che nei dieci, undici anni trascorsi in questa sua prima radice avrà dovuto
subire. E delle quali resta forse l’eco di un pianto; ma ancor più di tanti
sorrisi, se è vero come è vero che il ricordo indelebile di queste stanze e
queste scale è stampato nel disegno che lui stesso volle per la sua Villa di
S.Agata, villaggio nativo dei genitori e sua dimora di uomo già celebre e
maturo. Ma questo è un altro discorso.
Rita
Guidi
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