venerdì 26 ottobre 2012
mercoledì 4 luglio 2012
COLOMBIA: IL PAESE CHE NON TI ASPETTI - testo e foto di Paolo Pernigotti
Di stupefacente c’è il Paese che non t’aspetti. E la
violenza è il sole dei tremila che brucia nel cielo di Bogotà. Scordatevi certi
film: la Colombia non è un ghigno, è un sorriso. La guerra della coca è
lontana, relegata nelle foreste di confine e nelle ultime pagine dei giornali.
Non è più sulla porta di casa. I padrini del narcotraffico erano i padroni del
Paese: in Parlamento come al Rotary. Altri tempi. Pablo Escobar e i signori dei
Cartelli sono morti ammazzati. Hanno preso il loro posto opachi guardaspalle. O
i guardaspalle dei guardaspalle -che è un mestiere che si diventa vecchi di
rado -, gente che al mondo non sa stare neanche da viva. E la Colombia, giorno dopo giorno, è un altro
mondo da loro.
Il cuore d’ogni città, d’ogni mucchio di case, è una Plaza Bolivàr. A Bogotà la
statua pensosa dell’eroe è circondata dai neoclassici palazzi che contano: il
Parlamento, il Municipio, il Tribunale. E la Cattedrale. Ci sono quaranta
università nella capitale e trentasei appartengono alla Chiesa: il Paese vive
fra manager Opus Dei e Madonne che occhieggiano come pin up dalle serigrafie
degli autobus.

Il centro storico ha due anime: la capitale e il villaggio. A Bogotà orientarsi
è facile, come a New York: le strade hanno numeri progressivi e se una strada
va da nord a sud si chiama Carrera, da est a ovest Calle.
La parte più
interessante della “Candelaria”, il quartiere coloniale a est di Plaza Bolivàr,
sta tra Carrera 2 e 5, tra Calle 9 e 12: vi s’incontrano altre chiese dagli
altari d’oro e dalle ombre pesanti, altri palazzi dalle facciate solenni, e poi
teatri, musei. Se l’ottocentesco Libertador della piazza grande è opera di un
artista calabrese, Pietro Tenerani, un altro Pietro, il fiorentino Cantini, ha
firmato in Calle 10 il Teatro Colòn, gran fasto di palchi, ori e do di petto.
Perché qui Puccini è più celebre della Pausini.
Dai tempi delle caravelle in giù molti italiani hanno portato un segno da
queste parti. La strada inversa l’ha fatta Fernando Botero, colombiano
superstar, casa e bottega ormai da anni in Versilia, che però non ha
dimenticato il suo Paese, né ha voluto che la Colombia si dimenticasse di lui.
In Calle 11 una residenza coloniale balconata e fiorita è diventata un museo
che porta il suo nome. Grandi forme e grandi firme: centoventi tele e sculture
dell’artista e novanta opere che facevano parte della sua collezione privata,
da Picasso a Chagall, da Renoir a Matisse, da Monet a Miro, a tutti i più
grandi dell’Otto e Novecento. Con le magrezze di Giacometti dirimpetto alle sue
rotondità.
I musei sono una quarantina solo nella Candelaria. E ancora biblioteche,
ministeri, monasteri. E transenne e soldati ad ogni angolo a proteggere la
quiete senza traffico del barrio nobile. Poi, improvvisamente, le strade si
stringono, s’inerpicano verso un’inattesa collina, s’acciottolano di pietre
così grosse da schiantare ogni auto che si azzardi, e le case si fanno più
povere ma anche più allegre, facciate basse dai colori sgargianti, gialli,
rossi, blu, davanzali e balconi che sono macchie di fiori.

Garcia Màrquez, Alvaro Mutis, Fernando Vallejo, Santiago Gamboa: la Colombia è
terra di scrittori. E ovunque mercatini di libri usati e biblioteche affollate:
la Colombia è anche terra di lettori. Qui la parola è importante, basta un
angolo di piazza e un microfono perché la gente faccia cerchio e ascolti.
Pensieri in libertà, barzellette, poesie: quel che conta è parlare, quel che
conta è ascoltare. Hyde Park per eccellenza è Plaza Santander, all’ombra di un
museo che è un forziere di cinque piani: racconta i secoli d’oro del Paese, è
il Museo dell’oro. Nelle sale buie grandi teche di cristallo a prova di bazooka,
acquari di luce dove galleggiano monili, maschere, costumi: trentacinquemila
finissimi gioielli dell’epoca preispanica, di quando questa terra ancora non
sapeva che avrebbe pagato cara la sua ricchezza. Il pezzo forte è la miniatura
di una zattera dell’antico popolo Muisca, un bagliore di carati che
ricostruisce una cerimonia sacra sul lago di Guatavita, con le minuziose
figurine dei rematori e del Gran sacerdote. Nell’occasione immensi tesori d’oro
e smeraldi venivano lasciati cadere nel lago: erano doni per il dio Sole. Gli
spagnoli li hanno cercati a lungo, senza successo. Forse il Sole se li è
portati via.
A Bogotà i taxi costano poco. Per noi tutto costa poco in Colombia. E la
Carrera 7 vale il tassametro: è un film che scorre al finestrino. Attraversa
tutta la città, da Nord a Sud, per decine e decine di chilometri, e racconta i
volti più diversi della metropoli. Parte dal Palazzo presidenziale, alle spalle
di Plaza Bolivàr, scorre accanto ai grattacieli del centro finanziario, ai
ristoranti della Zona G (come gourmet), alle strade della vita notturna, la
Zona Rosa, ai grandi centri commerciali, ai quartieri residenziali con i
condomini in mattoni rossi e le grandi vetrate, fino a costeggiare le favelas
della periferia, che qui chiamano tugurios, abbarbicate sulle alture.
Poi la strada porta più a nord, fra prati gibbosi rubati ad antiche lagune e le
selvagge rupi di Sutatausa da cui i missionari buttavano gli indios che non si
lasciavano convertire, fra cimiteri fioriti come giardini (perché qui i fiori
costano meno di tutto) e bandiere rosse che trionfano sulle facciate di qualche
casa ma solo per dire che lì si vende carne.
Cinquanta chilometri fuori dalla capitale, alle porte della cittadina di
Zipaquirà, un cartello indica la più spettacolare catacomba che si possa
immaginare: Ciudad de la Catedral de sal. Nel cuore profondo di una montagna,
dove anticamente era una miniera di sale, si nasconde una maestosa, solenne
cattedrale, così grande da poter contenere oltre ottomila persone. La sua navata
centrale è alta diciotto metri ed è lunga quindici. Sulla testa ha 125 milioni
di tonnellate di sale. Vi si arriva percorrendo una galleria di oltre un
chilometro nella quale si aprono quattordici grotte: le stazioni della Via
Crucis. Le luci sono fioche, guidano lungo il percorso i canti dei pellegrini.
E sotto terra il Cielo è più vicino.

La Colombia è percorsa per il lungo da tre dorsi montagnosi, le Cordigliere,
che hanno origine comune nel verde Massiccio colombiano. San Agustin ne è il
cuore. Vi si arriva in quattro ore d’auto dall’aeroporto di Neiva, non c’è via
più breve.
La strada costeggia l’impetuoso Rio Magdalena, il più importante
fiume del Paese con i suoi millecinquecento chilometri di acque bionde. Un
pigmento che cade dagli alberi lo colora alla sorgente, quando il fiume è un
toboga di rapide vorticose fra rocce bianche, profondo e stretto: non più di un
metro e mezzo da una sponda all’altra, in qualche punto, ma con diciotto metri
sotto e una corrente che è un tumulto d’acqua, tanto che molti hanno perso la
vita nei suoi gorghi per poter dire: ho saltato il Magdalena con un balzo.
La strada per San Agustin attraversa coltivazioni di cacao, di tabacco e di
riso all’ombra di Ceibas centenarie, sale fra mandrie di zebu dal manto bianco
e bancarelle di formaggio fresco in cartocci di palma. Cartelli stradali
indicano località dal suono familiare: Palermo, Florencia, Venice… I
conquistadores non avevano troppa fantasia. Dagli orti dietro casa sbucano
piantine di Coca: qualche foglia è permessa, uso personale, per farne tisane
contro l’emicrania o ruminarne un po’ quando si è giù di corda. Non è droga,
tengono a spiegare, è medicina naturale. Il traffico è a tavoletta: grossi
camion dalle cromature splendenti e il muso da bulldog, motociclisti con il
numero della targa ripetuto sulla schiena del giubbotto e sul casco: lo impone
una legge dei tempi di Escobar, quando i sicari dei narcos prediligevano la
moto per il loro lavoro. I tassisti indossano una manica di camicia, una sola:
per tenere il braccio fuori dal finestrino senza arrostirlo al sole. Qui
picchia. Quando partono, toccano legno, usa così, e si fanno il segno della
croce: da come guidano si capisce perché. Ogni tanto una frenata improvvisa:
c’è un ingorgo di avvoltoi a banchetto dove un cane ha attraversato la strada
soprapensiero.

Dal misterioso passato remoto del Massiccio colombiano a Medellin,
imbarazzante
passato prossimo e confortante presente. I suoi “cartelli” oggi esportano rose
e garofani, la Colombia ne è la prima produttrice al mondo, e le sue
architetture all’avanguardia, le luci delle vetrine, l’unica metropolitana del
Paese ne fanno la città più moderna. Proprio la metropolitana è simbolo di
riscatto, di un futuro diverso. Linea A verso nord, stazione di Acevedo: qui,
davvero, signori si cambia. Una funicolare di cabine trasparenti sale lungo le
pendici di una collina, passa su tetti di lamiera a perdita d’occhio, muri
improvvisati e bambini scalzi. E’ la favela di Santo Domingo Savio, la più
grande fra le tante stese sulle sponde della città. La funicolare ferma in due
stazioni intermedie e conclude il suo viaggio proprio nel cuore del “tugurio”,
un tempo regno dei narcotraficanti, dove neppure l’esercito osava entrare.
Oggi, accanto alla stazione d’arrivo, c’è un grande centro sociale con asilo,
teatro e auditorium, c’è una “banca dei poveri”, “Banca Mia” si chiama, dove
per garanzia si chiede solo la voglia di risorgere, e c’è una grande biblioteca
sempre piena di giovani che da lì cominciano a guardare oltre le fogne a cielo
aperto. C’è soprattutto gente in strada, libera di andare, venire, vivere in
pace. Libera di sorridere anche agli sconosciuti, come i colombiani sano fare
meglio di chiunque altro.
Ferdinando Botero era di Medellin. La centralissima Plazeta de las Esculturas,
dove passa tutta la città, è un museo all’aperto delle sue opere, oltre una
ventina, e all’ombra delle sue donne ciccione, accanto ai suoi ometti paffuti,
la gente chiacchiera, legge, telefona, si bacia. Quell’abbondanza di forme è
amica d’ogni gesto.
Rose e garofani, oro e smeraldi, ma anche banane, carbone, petrolio, nichel: la
Colombia è ricca. Sono i colombiani che sono poveri. Oltre mezzo milione di
famiglie vivono del caffè, di cui il Paese è secondo produttore al mondo, dopo
il Brasile. Qui, al bar, si chiede un “tinto” e ha il decantato gusto di
montagna: cresce fra i 1300 e i 1700 metri della regione andina, in una fra le
più lussureggianti zone della Colombia, la Regione Cafetera, su pendici
terrazzate, in mezzo a palmeti, fattorie e torrenti. C’è una piantagione-museo,
o parco a tema, nel dipartimento del Quindio, a Calarca: “Recuca” si chiama.
Dalla semina alla tazzina passano due anni, qui in due ore si vede tutto e,
alla fine, c’è anche un breve corso con assaggio per imparare i segreti di un
“tinto” come si deve, e come si beve. A mezz’ora di strada in auto, il bianco
villaggio ottocentesco di Salento, souvenir e cotillon in ogni angolo, poi
un’altra mezz’ora di salita in jeep o a cavallo e ci sono le palme più sottili
e svettanti, l’alpeggio più verde e le mucche più svizzere di tutti i Tropici.
E’ un posto che non si sa da dove venga, è la Valle de Cocora. Ad accrescere lo
stupore, stracci di nebbia argentati dal sole, nuvole basse che le palme
trapassano con i loro colli da giraffa. Forse il cielo è irlandese.
Un appassionato di natura in Colombia non si annoia: il Paese vanta 2300 specie
diverse di uccelli, primo al mondo, ed è il secondo per varietà di piante e di
farfalle, il terzo per rettili e anfibi, il quarto per mammiferi.
E’attraversato da oltre mille fiumi e possiede trentadue parchi nazionali.
Il più famoso è il Parco di Tayrona, ai piedi della Sierra Nevada, a una
quarantina di chilometri dalla città di Santa Marta: una foresta sul Mar dei
Carabi. Degli indios che l’abitavano un tempo è rimasta una famiglia in cima a
una montagna, poche capanne fra i resti in pietra di quello che era un
importante villaggio: Pueblito. Occorrono un paio d’ore a piedi, attraverso
spiagge e foresta, per raggiungerlo, e qualche provvista di cibo per essere
accolti con più cordialità dagli indios. Gli altri abitanti del Parco sono gli
ospiti dell’unico, fascinoso albergo - un grappolo di confortevoli capanne
stile indios e vista mare - i pochi campeggiatori che hanno trovato da piantare
una tenda su una spiaggia e, naturalmente, tutta la fauna che una foresta
incontaminata dei Tropici sa offrire: basta fermarsi in silenzio lungo un
sentiero, tentare di cancellare la propria presenza. Per qualche istante non
succede nulla, tutto tace, poi qualche fruscio, un muoversi di fronde, un
batter d’ali, uno scalpiccio alle spalle, un geco che saetta lungo un tronco,
una gobba di pelo lucido che taglia il sentiero, il rumore di un ramo che si
spezza, un riflesso freddo nell’erba… E, a quel punto, di solito, si preferisce
riprendere il cammino, quali altri esseri viventi abitino da quelle parti lo
leggeremo sulla guida.
Da un parco naturale a un parco storico, ultima tappa di questo viaggio alle
diverse latitudini della Colombia: Cartagena de Indias. Che già suona bene. Le
strade e le piazze della città vecchia sembrano quinte di un film di cappa e
spada, dai balconcini in legno precipitano cascate di buganvillee, i portoni
aperti mostrano patii ombrosi e accoglienti, la colonna sonora la fanno gli zoccoli
dei cavalli che portano in giro turisti in carrozzella, e spesse mura cingono
il centro storico: lo hanno difeso egregiamente dai pirati, e più recentemente
dai palazzinari. Solo qualche piccola incursione è riuscita. A questi ultimi.
Plaza de la Aduana, la più grande e antica della città, Plaza de los Coches, un
tempo mercato di schiavi e oggi di dolci sotto il fresco porticato, la grande
chiesa di Santo Domingo con il suo campanile pendente, il vicino convento di
San Pedro Claver e il riposante giardino interno… Ma quel che c’è da vedere lo
si trova anche senza cercare: la città vecchia è piccola, tutto è subito lì.
Niente mappe, meglio andare a zonzo, arrivarci per caso, godersi la sorpresa,
camminare senza meta. Lasciandosi prendere e portare dalla luce, dai rumori,
dal tempo che fu, e pare esserci ancora.
domenica 13 maggio 2012
L'OMBRA VERDE DEI GIGANTI - California da fiaba al Sequoia National Park, di Rita Guidi
Due miglia in due ore, per questo viaggio “di Gulliver” in
una altrettanto sorprendente natura. Sempre un’altra California, a cinque ore
d’auto verso Sud-Ovest, rispetto a quella “17 miles drive” di cui abbiamo già parlato, è sempre, improvvisa e imprevedibile, grande suggestione.
O
dovremmo dire “gigantesca”, perché i centoventi minuti da percorrere questa
volta a piedi, di cui parliamo, affondano nel millenario rigoglio della “Giant
Forest” : quella foresta dei giganti che raccoglie e conserva gran parte
di quelle inenarrabili balene degli alberi che sono le sequoie.
Rosse, per quella corteccia porosa e impenetrabile che le può
difendere fino a quasi un metro di spessore, riuscireste a individuarle
comunque nell’intrico ordinato e sempreverde di questa riserva. Il “Sequoia
& Kings Canyon”, cioè, che ammanta di rocce, canyon, caverne e foreste un
buon numero di chilometri di questa California, tra la “San Joaquin Valley” e
il margine della Sierra Nevada. Un paradiso curatissimo e quasi tutto
percorribile in mille sentieri, che comprende come una rara leccornia anche
questi mastodonti.
Naso inutilmente all’aria e il vago ma non inquietante
sospetto di essere ridiventati bambini e per di più a Lilliput, i visitatori ne
percorrono curiosi e minuscoli le circonferenze, si infilano nelle fenditure,
spariscono nei teleobiettivi a grandangolo che tentano di immortalarle tutte.
Le sequoie. Immobili e immense eppure “delicate”, ascoltano silenziose la
meraviglia di noi piccoli uomini moderni. Passanti, per chi il mondo lo abita
da sempre. Perché possono arrivare anche due secoli oltre i tremila anni ;
e qualcuno lo fa : come il “Generale Sherman”, autentico monumento alla
natura ed essere vivente più grande del nostro pianeta, che assolutamente in
gran forma, nasconde come una vezzosa signora la sua età. 2.300 o 2.700
anni ? Chissà, anche se anno più anno meno, in quei termini sembra essere
solo una questione di particolari.
Lo trovate all’inizio del “Congress Trail”,
questo il nome delle due miglia di sentiero di cui dicevamo ; e dopo di
lui, intere famiglie (“The House”, “The Senate”), o altri lupi solitari (“The
President”, “McKinley”). Non che quelli senza nome siano da meno : con
qualche centinaio d’anni di differenza, questi cuccioli svettano comunque da
torcicollo.
Magari non come i “redwood”, un’altra razza più sottile di sequoia,
che può superare i cento metri. Si fermeranno alla novantina, e ingrasseranno
fino a un migliaio di tonnellate, tonde di una trentina di metri ;
delicate : le radici fittissime e larghe, sono poco profonde, da non
gradire chi le calpesta. Ma per ora c’è
tempo : cinquecento, seicento, forse un migliaio di anni. Giganti, anche
se soldati semplici, in attesa che il “generale” passi la mano...
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